Da bambino tradito a “mostro di Foligno”

L’infanzia negata, la doppia vita e la lucida follia. La parabola di un assassino che continua a interrogare la coscienza del Paese.

Foligno – Ci sono storie che non finiscono quando la giustizia chiude i fascicoli. Continuano a vivere nelle pieghe della memoria collettiva, come ferite che non si rimarginano. Quella di Luigi Chiatti, passato alla cronaca come il mostro di Foligno, è una di queste. Non solo per l’orrore dei delitti – due bambini uccisi nel cuore dell’Umbria all’inizio degli anni Novanta – ma per ciò che rappresenta: la fragilità estrema dell’essere umano quando la solitudine diventa abisso.

Luigi Chiatti nasce come Antonio Rossi il 27 febbraio 1968 a Narni, in provincia di Terni. Figlio di una madre giovanissima, troppo giovane per prendersene cura, viene affidato pochi mesi dopo a un istituto per minori. In quell’orfanotrofio subisce abusi sessuali da parte di un religioso, stando a quanto sarà successivamente accertato. È un trauma profondo, che scava in lui una ferita che non smetterà mai di sanguinare.

Quando Antonio ha sei anni, una coppia di Foligno – medico lui, insegnante lei – decide di adottarlo. Il piccolo Antonio diventa Luigi Chiatti. Ma il cambio di nome non cancella il vuoto, l’abisso dentro di lui resta intatto e si fa ogni giorno più profondo. Luigi cresce educato, riservato, gentile con tutti, eppure distante. Gli affetti lo sfiorano ma non riescono a penetrare la sua anima inquieta.

Dietro il ragazzo tranquillo che si diploma geometra nel 1987, si nasconde una mente ossessiva, tormentata da pensieri di dominio e purezza. Gli psichiatri, anni dopo, parleranno dipedofilia maligna”, una deviazione in cui l’attrazione per i bambini si intreccia con pulsioni di controllo e annientamento.

È il 4 ottobre 1992. Luigi Chiatti ha ventiquattro anni. Approfitta dell’assenza dei genitori adottivi e si avvicina al piccolo Simone Allegretti, quattro anni e mezzo, incontrato nella campagna tra Foligno e Bevagna. Gli propone di seguirlo a casa per giocare.

Il piccolo Simone Allegretti

Nell’intimità domestica, la follia prende forma. Luigi spoglia il bambino, lo molesta. Quando Simone piange, lui perde il controllo. Lo soffoca con le mani. Crede sia morto, lo avvolge in un telo di plastica e lo carica in macchina. Ma il bambino respira ancora. Due coltellate alla gola mettono fine a quell’ultimo anelito. Poi, il corpo viene abbandonato lungo una scarpata.

L’Umbria si sveglia con l’orrore. Un bambino è scomparso e nessuno sa che il suo assassino vive a pochi metri da loro.

Pochi giorni dopo, comincia un gioco perverso. Biglietti anonimi arrivano alle redazioni dei giornali e agli inquirenti. Sono scritti con un normografo. La firma racconta l’orrore di chi li ha scritti: “il mostro”.
Chiatti fornisce particolari che solo l’assassino può conoscere – l’orologio della vittima, le modalità dell’omicidio – e si diverte a sfidare gli investigatori. Partecipa perfino alle ricerche del bambino, confondendosi tra i volontari.
È il potere che lo nutre: sentirsi invisibile, superiore, arbitro del dolore altrui.

Dieci mesi dopo, il 7 agosto 1993, Chiatti colpisce ancora. Stavolta la vittima è Lorenzo Paolucci, tredici anni, un ragazzo che conosce. Lo invita a casa per giocare a carte. Lorenzo vince, ride di quel traguardo apparentemente innocuo. Luigi non sopporta la frustrazione. La rabbia esplode: afferra un forchettone, colpisce, strangola, poi infierisce con sei coltellate alla gola.

Lorenzo Paolucci

Dopo, compie atti sessuali davanti al corpo. Trascina il cadavere in un bosco, cerca di occultarlo. Ma i vicini hanno sentito rumori, grida, movimenti. La polizia arriva. Durante le ricerche, è lui stesso – in un misto di vanità e panico – a condurre gli agenti sul luogo dove ha nascosto il corpo.

L’incubo si svela. Il “mostro” ha (finalmente) un volto, un indirizzo, un nome.

Luigi Chiatti non oppone resistenza. In caserma, confessa tutto con un tono freddo, distaccato. Racconta i delitti come se fossero esperimenti. Dice di aver voluto “capire cosa si prova”.
Gli psichiatri tracciano il suo profilo: narcisista, ossessivo, privo di empatia, diviso tra il bisogno di amore e la paura del rifiuto. Dentro di lui convivono il bambino abusato e l’adulto predatore.

Nel dicembre 1994 la Corte d’Assise di Perugia lo condanna a due ergastoli. Nel 1996, la Corte d’Appello riconosce la seminfermità mentale e riduce la pena a trent’anni di reclusione. La Cassazione, nel 1997, rende definitiva la sentenza.

Gli anni passano ma Luigi Chiatti non cambia. In cella disegna, scrive lettere, prega. Ma le perizie psichiatriche descrivono sempre lo stesso uomo: incapace di provare empatia, popolato da fantasie pedofile e sadiche.
Quando nel 2015 finisce di scontare la pena, i giudici decidono che non può tornare libero. Viene trasferito in una REMS di Capoterra, in Sardegna, una struttura psichiatrica per soggetti socialmente pericolosi. Lì vive ancora oggi, in una routine scandita da farmaci, silenzi e sorveglianza.

Nel 2018 scrive una lettera alle famiglie delle vittime:

“Se potessi tornare indietro non rifarei mai ciò che ho fatto, perché ciò che ho fatto è distruzione della vita e disprezzo del creato.”

Le famiglie di Simone e Lorenzo non rispondono. Il perdono non arriva.

Oggi, il nome di Luigi Chiatti è più di un caso di cronaca. È un enigma irrisolto.
Cosa accade quando un bambino ferito non riceve ascolto, quando il trauma diventa abitudine, quando l’abbandono cresce insieme alla rabbia?
Gli psichiatri parlano di un caso emblematico: l’abuso subìto che si trasforma in abuso agito, il dolore che si ribalta in violenza. Ma oltre la scienza resta la tragedia: un bambino che nessuno ha salvato, diventato un uomo capace di distruggere altri bambini.

Il “mostro di Foligno” non è solo l’autore di due delitti. È il simbolo di un fallimento collettivo. L’infanzia ferita, se non curata, può generare mostri.
I mostri non nascono nel vuoto.
Li genera il silenzio.
Li nutre l’indifferenza
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