Il “galletto” di San Gregorio e quel corpo mai trovato

L’84enne Salvatore Di Grazia, soprannominato il “galletto” per le sue avventure extraconiugali, dovrà scontare l’ergastolo per aver ucciso e fatto sparire il corpo della moglie 72enne nel 2011.

San Gregorio di Catania – La Corte di Cassazione ha reso definitiva una delle condanne più controverse degli ultimi anni in Sicilia: Salvatore Di Grazia, 84 anni, dovrà scontare 25 anni di reclusione per l’omicidio della moglie Mariella Cimò, 72 anni, scomparsa nell’agosto del 2011 da San Gregorio di Catania. Un caso che ha tenuto banco per oltre un decennio, con un cadavere mai ritrovato, prove circostanziali schiaccianti e le continue proteste di innocenza di un uomo che il paese aveva soprannominato il “galletto” per le sue note scappatelle amorose.

La scomparsa che non convince

Il 25 agosto 2011 Mariella Cimò sparisce nel nulla dalla sua abitazione. Secondo il marito, la donna si sarebbe allontanata volontariamente dopo l’ennesimo litigio sulla gestione dell’autolavaggio di famiglia ad Aci Sant’Antonio. Ma già dalle prime ore emergono elementi che non convincono gli investigatori: Mariella lascia a casa tutto ciò che le è più caro: i suoi amati cani e gatti, i cellulari, l’auto e i suoi effetti personali. Scompaiono invece diverse decine di migliaia di euro che la donna custodiva in casa.

Di Grazia racconta di essere uscito di buon mattino e di non aver trovato la moglie al suo ritorno. Ma le telecamere di sorveglianza di via Pascoli raccontano una storia diversa: riprendono l’uomo mentre esce alle 7:39 per tornare alle 9:15 con un grosso contenitore di plastica sul tetto dell’auto, un contenitore che non verrà mai più ritrovato e la cui scomparsa Di Grazia giustificherà dicendo che “erano stati i cani della moglie a distruggerlo completamente”.

L’autolavaggio dell’amore proibito

Il movente dell’omicidio affonda le radici nella crisi matrimoniale di una coppia sposata da 43 anni. L’autolavaggio di Aci Sant’Antonio, che avrebbe dovuto essere fonte di sostentamento per la famiglia, era diventato il teatro delle avventure extraconiugali di Di Grazia. L’anziano dongiovanni, dai capelli tinti di biondo, aveva trasformato l’attività commerciale in una vera e propria “alcova” per i suoi incontri galanti con donne molto più giovani.

Il contenitore di plastica mai più ritrovato

Mariella, esasperata dai tradimenti del marito e dai continui litigi, aveva minacciato di vendere l’autolavaggio, smantellando così il quartier generale delle scappatelle coniugali. Una prospettiva inaccettabile per Di Grazia, che si opponeva fermamente alla vendita. Negli ultimi tempi, secondo le ricostruzioni processuali, la moglie aveva iniziato a fare dei “blitz” nell’autolavaggio per controllare le attività del marito.

Il macabro promemoria e le intercettazioni

Tra le prove più inquietanti raccolte dagli investigatori spicca un biglietto scritto di pugno da Di Grazia, una sorta di “pizzino” su cui aveva annotato: “25 giovedì grosso litigio, 26 venerdì non trovata”. Un macabro promemoria che ha convinto definitivamente gli inquirenti della sua colpevolezza, insieme alle macroscopiche contraddizioni emerse durante gli interrogatori.

Il macabro promemoria

Le intercettazioni ambientali hanno poi svelato il volto più cinico dell’imputato: mentre davanti alle telecamere simulava preoccupazione per la scomparsa della moglie, al telefono si moltiplicavano le chiamate con Pina Grasso, ex cameriera con cui intratteneva una relazione. La donna, che frequentava assiduamente l’autolavaggio dove lavoravano il marito e il figlio, è stata condannata a un anno di carcere per favoreggiamento.

Quarantacinque indizi per una condanna

Il pubblico ministero Angelo Busacca aveva presentato in dibattimento ben 45 indizi di colpevolezza che incastravano l’imputato, chiedendo inizialmente la condanna all’ergastolo. La difesa di Di Grazia ha sempre puntato sull’ipotesi dell’allontanamento volontario, sostenendo che Mariella, donna molto riservata, potrebbe essersi nascosta per evitare l’esposizione mediatica del caso.

Mariella Cimò e Salvatore Di Grazia

“45 barzellette, altro che verità”, aveva dichiarato Di Grazia durante il processo, aggiungendo: “Io sono rimasto ancora oggi in questo deserto sentimentale e sono rimasto solo perché ancora aspetto mia moglie e mi si dicono che l’ho uccisa e l’ho fatta a pezzi, ma stiamo scherzando? Mi auguro che torni domani ed io possa crepare dopodomani per dare soddisfazione a queste cassandre che si stanno sbagliando”.

Una giustizia arrivata dopo oltre un decennio

La condanna definitiva è arrivata il 26 ottobre 2019, quando Di Grazia si è presentato spontaneamente presso la casa circondariale di Catania per iniziare a scontare la sua pena. Un epilogo che chiude una vicenda giudiziaria durata oltre dieci anni, iniziata con la sentenza di primo grado del 7 aprile 2017 e confermata in appello l’8 luglio 2019.

L’autolavaggio di Aci Sant’Antonio

Anche in assenza del corpo della vittima, la condanna è stata possibile perché basata su un puzzle di prove circumstanziali che, nel loro insieme, hanno delineato un quadro probatorio incontrovertibile. Mariella Cimò, molto probabilmente, non è mai più uscita viva dalla sua abitazione di San Gregorio di Catania e quel grosso contenitore di plastica ripreso dalle telecamere potrebbe essere servito per far sparire per sempre le tracce di un matrimonio finito nel sangue.

Nonostante la condanna definitiva, il corpo di Mariella Cimò non è mai stato ritrovato. Gli investigatori ipotizzano che Di Grazia possa aver utilizzato l’acido per distruggere i resti della moglie, servendosi del contenitore di plastica ripreso dalle telecamere di sorveglianza. Un dettaglio macabro che aggiunge ulteriore drammaticità a una vicenda già di per sé agghiacciante.

La famiglia di Mariella, in particolare il fratello e i nipoti, non ha mai smesso di cercare giustizia, spingendo gli inquirenti a non archiviare il caso come semplice scomparsa volontaria.

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