Il centro storico è ancora fermo al 2016. Le frazioni abbandonate, cantieri lenti e un megaospedale contestato che divora milioni senza una data di apertura.
Amatrice – È il 24 agosto 2016, ore 3.36. Una scossa di magnitudo 6.0 devasta il cuore dell’Italia centrale. Il terremoto colpisce duramente Lazio, Abruzzo, Marche e Umbria, radendo al suolo interi paesi: Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto. Le vittime saranno 303, i feriti 308, oltre 41mila gli sfollati, con 340mila edifici danneggiati e danni economici per 24 miliardi di euro.
Il centro storico fermo nel tempo
“Amatrice non c’è più” fu la frase che, all’alba, fece il giro del mondo, pronunciata dall’allora sindaco Sergio Pirozzi. Nove anni dopo, quel grido sembra ancora attuale.
Passeggiare oggi nel centro storico di Amatrice significa tornare indietro a quella notte del 2016. Le macerie sono state rimosse ma ciò che resta è un enorme vuoto. Nessun vero cantiere di ricostruzione avviato, nessuna piazza restituita alla comunità. “Il cuore del paese – spiega il sindaco Giorgio Cortellesi – è ancora così com’era dopo il sisma. Non ci sono luoghi di incontro, la gente vive dispersa”.
Situazione analoga nelle frazioni: in molte non è stato fatto quasi nulla. Dove i cantieri sono partiti, i lavori procedono con estrema lentezza. Intanto, chi ha resistito continua a vivere nei prefabbricati delle Sae, mentre tanti altri hanno lasciato definitivamente la zona, soprattutto per trasferirsi a Roma.
L’ospedale che nessuno voleva
Mentre la ricostruzione fatica a decollare, un’opera pubblica continua a bruciare risorse: il nuovo megaospedale, otto piani in piena zona sismica. Un progetto fortemente contestato dalla comunità e dalle stesse istituzioni locali, che lo hanno definito “sovradimensionato e inutile” rispetto al fabbisogno reale. Eppure i cantieri non si fermano, i milioni scorrono ma non si intravede la data di ultimazione.

Un’eventuale apertura, inoltre, non basterà: resterebbe il nodo dell’allestimento dei reparti e, soprattutto, della ricerca di personale. “Serviranno medici, infermieri e amministrativi – osserva Cortellesi – ma non si trovano. Il rischio è di costruire una cattedrale nel deserto”.
“Dei 2.300 residenti ufficiali, sono rimasti a vivere ad Amatrice e nelle sue frazioni solo in 1.200. E duecento di questi sono seguiti dai servizi sociali”, spiega il primo cittadino, giunto al quarto anno di mandato. Per il nono anniversario ha deciso di non invitare le istituzioni: “Le cose vanno male e dovevamo farlo sapere al Paese. I cittadini non sopportano più le passerelle. Chi vuol venire, lo faccia privatamente”.
Amatrice, che in estate arrivava a ospitare fino a 50mila persone, oggi non ha più una piazza, un centro vitale. Gli abitanti vivono dispersi in 52 insediamenti temporanei Sae (soluzioni abitative di emergenza), prefabbricati che hanno frantumato la comunità. “Si esce solo per fare la spesa e poi si rientra a casa. La vita pubblica non esiste più. Dopo nove anni il terremoto è diventato solitudine”.
Gli errori della ricostruzione
Il sindaco non nasconde la durezza della situazione: “La normativa ci ha messo tre anni a consolidarsi. Poi sono arrivati due anni di Covid. E gli incentivi fiscali del 110 per cento hanno fatto fuggire le imprese, gonfiando i prezzi. Altri due anni persi”.

Molti errori, sottolinea Cortellesi, sono stati fatti nella pianificazione. La scuola attuale, costata 6 milioni, è definita “un disastro”: tetti piani in montagna, aule sparse, gestione insostenibile. Anche i centri commerciali sono stati progettati male: “I ristoranti separati dai negozi. Il corso è un carcere su due piani, buio, senza vetrine. L’unica area riuscita è stata quella food”.
Ricostruzione pubblica e privata
Alcuni cantieri si muovono: il viadotto che aggira il centro (60 milioni di appalto), il municipio, la chiesa di San Francesco. Ma la ricostruzione privata resta il vero tallone d’Achille: il 44% delle case non ha ancora visto partire i lavori. “Le domande non vengono presentate, gli studi si intasano, i condomini litigano. Così ci si ferma. Lo Stato dovrebbe avere tutto in mano, con una normativa unica. Invece tre terremoti (L’Aquila, Amatrice, Emilia) e tre leggi diverse”.
Un rischio concreto, avverte il sindaco, è che “avremo case finite senza persone che le andranno ad abitare”. La fuga verso Roma continua, mentre le Sae diventano permanenti. “Ho dovuto sfrattare chi aveva venduto la casa ricostruita o chi non voleva tornare in affitto. Le Sae sono baracche travestite da abitazioni. Bisogna tornare a una vita normale”.
Comunità spezzata e tempo perduto
La realtà è dura: “Dopo la paura, il dolore e la solidarietà mondiale, oggi viviamo la fase più difficile: la consapevolezza che ci vorranno ancora anni. E questa consapevolezza fa danni, molti si chiedono: conviene restare qui?”.
Cortellesi prova a infondere fiducia: “Sì, conviene restare, per la comunità. Ma troppi aiuti hanno creato dipendenza. In Italia siamo eccellenti negli interventi immediati ma carenti nella fase successiva. Serve una pianificazione del temporaneo, una visione, non soluzioni improvvisate”.

Il sindaco non punta il dito contro il governo né contro l’attuale commissario Castelli: “Il cambiamento c’è stato ma gli effetti richiederanno anni. Con Legnini era iniziato un percorso importante”. Il problema, ribadisce, è l’assenza di una strategia chiara e di un’attenzione speciale per i dieci comuni realmente devastati.
La ricostruzione pubblica avanza a fatica, quella privata rischia di restare incompiuta, e intanto il nuovo ospedale divora risorse senza un futuro chiaro. Amatrice continua a vivere sospesa tra ricordi e macerie, tra cantieri infiniti e comunità che si svuotano.
Nove anni dopo, il silenzio del centro storico è la denuncia più forte: il terremoto non è finito.