Il suicidio in carcere di Stefano Argentino riapre il dibattito sui limiti della giustizia italiana e sulle lacune della legge 199/2003.
Messina – La morte di Sara Campanella, la ventunenne uccisa a coltellate a Villafranca Tirrena da Stefano Argentino, ha scoperchiato uno dei più assurdi paradossi del sistema giudiziario italiano. Il caso, già tragico per il femminicidio che l’ha originato, si è trasformato in un cortocircuito normativo che mette a nudo le contraddizioni di un ordinamento che rischia di tutelare più i carnefici delle vittime.
Il suicidio dell’assassino e l’estinzione del processo
Stefano Argentino, 27 anni, si è tolto la vita impiccandosi nella sua cella del carcere di Gazzi, poche settimane prima dell’avvio del processo per omicidio volontario. Un gesto che ha interrotto bruscamente qualsiasi possibilità di giustizia per Sara e i suoi familiari: secondo il principio giuridico del “mors rei”, la morte dell’imputato determina l’estinzione automatica del procedimento penale.

Ma è qui che emerge il paradosso più sconcertante. Mentre la famiglia Campanella si trova di fronte al nulla – nessun processo, nessuna sentenza, nessuna possibilità di risarcimento – i parenti dell’assassino potrebbero ora rivalersi contro lo Stato per omessa vigilanza. L’amministrazione penitenziaria aveva infatti revocato la sorveglianza speciale per rischio suicidario nonostante i segnali allarmanti, una negligenza che potrebbe configurare una responsabilità da parte dello Stato.
Un sistema che protegge il carnefice
L’articolo 27 della Costituzione stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità“, principio rafforzato dal regolamento penitenziario che impone allo Stato precisi obblighi di tutela dell’incolumità dei detenuti. In base a questa normativa, la famiglia di Argentino ha concrete possibilità di ottenere un risarcimento, come già avvenuto in casi analoghi in cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per negligenza nella prevenzione dei suicidi in carcere.
Al contrario, per i genitori di Sara non esiste alcuna via giudiziaria percorribile. Con la morte dell’imputato si è estinta ogni possibilità di rivalsa sul suo patrimonio – peraltro inesistente – o su quello dei suoi familiari. L’unica opzione rimasta è il fondo statale previsto dalla legge 199 del 2003, che garantisce un contributo massimo di 50.000 euro per i casi di omicidio.
I limiti della legge 199/2003
La normativa del 2003, nata per recepire le direttive europee a tutela delle vittime di reati violenti, si rivela drammaticamente inadeguata di fronte a casi come quello della giovane studentessa. Il fondo pubblico, gestito dal Ministero dell’Interno attraverso le Prefetture, prevede requisiti restrittivi per l’accesso e importi standardizzati che appaiono irrisori rispetto alla gravità del danno subito.
Ma il problema principale emerge quando il procedimento penale si estingue prima di una sentenza definitiva. In questi casi, anche lo strumento del fondo statale può risultare inefficace o tardivo, lasciando le famiglie delle vittime in un limbo giuridico ed economico.
Il caso Campanella non è isolato e mette in luce le contraddizioni di un ordinamento che garantisce maggiori tutele ai detenuti – sacrosante, nessuno lo mette in dubbio – rispetto alle vittime dei reati più gravi. Una disparità che stride ancora di più quando si tratta di femminicidi, reati che richiederebbero una particolare attenzione da parte delle istituzioni.

La vicenda riapre il dibattito sulla necessità di riformare la legge 199/2003, aumentando gli importi previsti e semplificando le procedure di accesso al fondo. Ma soprattutto solleva interrogativi più profondi sul concetto stesso di giustizia: può considerarsi tale un sistema che, nel tentativo di tutelare i diritti di tutti, finisce per dimenticare chi ha subito il torto maggiore?
Mentre l’inchiesta sulla morte di Argentino prosegue e la sua famiglia valuta azioni legali contro lo Stato, i genitori di Sara continuano a lottare per ottenere almeno quel riconoscimento simbolico che la legge prevede. Un’amarezza che si aggiunge al dolore, in un Paese che ancora fatica a garantire vera giustizia alle vittime di femminicidio.