L’imprenditore edile fu ucciso sotto gli occhi del figlio perché si era rifiutato di pagare il pizzo.
Licata – Salvatore Bennici nasce a Licata nel 1934 e dedica la sua vita all’attività imprenditoriale nel settore edile. Cresciuto in una Sicilia dove il sistema mafioso si intrecciava profondamente con l’economia locale, Bennici rappresenta l’esempio di quegli imprenditori che credevano fermamente nella possibilità di fare business in modo pulito e trasparente.
La sua attività si concentrava principalmente nel campo delle costruzioni e dei lavori pubblici. Come imprenditore edile di Licata, in provincia di Agrigento, si era aggiudicato l’appalto per dei lavori sulla rete fognaria di Palma di Montechiaro. Questo progetto rappresentava un’opportunità professionale piuttosto importante per Bennici e la sua impresa.
Le prime intimidazioni
Con l’arrivo del subappalto per l’acquedotto, arrivarono anche le richieste di pizzo. La pressione mafiosa si manifestò in modo sistematico e sempre più violento: telefonate minacciose, escavatori bruciati, porte di casa date alle fiamme. Un crescendo di intimidazioni che avrebbe piegato molti ma non Salvatore Bennici.
La sua risposta fu netta e coraggiosa: Salvatore disse no e denunciò tutto, sistematicamente. Non si piegò e non mollò. In un contesto dove il “pizzo” era considerato una tassa inevitabile per chi voleva lavorare in tranquillità, il suo rifiuto categorico e le sue denunce rappresentarono un atto di coraggio come pochi altri avevano dimostrato di averne.
Salvatore Bennici era un uomo che credeva profondamente nel valore della legalità e nel dovere civico di opporsi al sistema mafioso, costi quel che costi. E a lui costò la vita.

L’omicidio
Era il 25 giugno 1994. L’ultimo giorno di Salvatore Bennici. Alle 7.30 del mattino, due uomini incappucciati intercettarono Salvatore e il figlio Vincenzo mentre si recavano nel cantiere edile di via Palma, periferia di Licata. Vollero che il figlio guardasse morire il padre sotto i suoi occhi, affinché – almeno lui – si piegasse alle loro richieste. La dinamica dell’omicidio fu spietata e diede sfogo a una crudeltà calcolata, pensata per infliggere il massimo dolore possibile.
I mafiosi immobilizzarono il figlio Vincenzo davanti agli occhi del padre. Volevano che guardasse mentre lo ammazzavano, perché il ricordo di quell’orrore diventasse il suo compagno di vita. Il giovane gridò, voleva soccorrere il padre ma i killer esplosero quattro colpi, due alla testa, due al torace di Salvatore. Non ci fu niente da fare per l’imprenditore.
Fu uno spettacolo orrendo per il figlio, che rimase solo in quel cantiere con il padre morente con la testa e il corpo ridotti a brandelli. L’immagine di Vincenzo, costretto ad assistere impotente all’omicidio del padre, è l’emblema più agghiacciante della violenza mafiosa.
I due killer, dopo aver “consigliato” a Vincenzo di “stare zitto”, si allontanarono a bordo di un’Alfa 155, ritrovata poi bruciata qualche ora dopo tra Licata e Palma di Montechiaro. L’automobile era stata rubata un mese prima del delitto ad Agrigento.
L’esecuzione fu un messaggio chiaro della mafia: chi si oppone al sistema estorsivo paga con la vita e la presenza del figlio Vincenzo era il tentativo, l’ennesimo, di piegare anche la nuova generazione ai dettami criminali.
Il coraggio di un padre
Esistono momenti nella storia di un popolo in cui il coraggio di pochi illumina la strada di molti. Le vittime del racket mafioso – imprenditori, commercianti, artigiani che hanno scelto di dire “no” al pizzo – rappresentano una delle forme più pure di eroismo civile che la nostra società abbia mai conosciuto.
Dietro ogni nome inciso su un monumento in ricordo dei caduti per mano della mafia, c’è una storia di dignità che ha prevalso sulla paura, di principi che hanno vinto sul calcolo, di onestà che ha trionfato sulla convenienza. Salvatore Bennici, Libero Grassi e, come loro, tanti altri hanno pagato con la vita la loro fedeltà ai valori in cui credevano.

Questi uomini e queste donne non erano supereroi ma persone comuni. Eppure, quando si sono trovati davanti al bivio tra la sottomissione e la resistenza, hanno scelto la strada più difficile. Hanno scelto di rimanere persone libere.
Il loro “no” al pizzo non era solo un rifiuto economico ma un atto di ribellione esistenziale contro un sistema che voleva ridurli a sudditi. Era la rivendicazione del diritto a costruire il futuro con le proprie mani, senza dover chiedere il permesso a chi si proclama padrone del territorio.
La crudeltà con cui sono stati uccisi – spesso davanti ai familiari, come nel caso di Bennici – rivela quanto la mafia temesse il loro esempio. Perché ogni imprenditore che si ribellava rappresentava una crepa nel muro dell’omertà, una prova vivente che un’alternativa fosse non solo possibile ma anche perseguibile.
La mafia però non ha tenuto conto di una cosa fondamentale: i martiri non muoiono mai veramente. Le loro storie diventano semi che germinano nelle coscienze, esempi che ispirano altri a trovare il coraggio di ribellarsi. Ogni volta che un commerciante si rivolge alle associazioni antiracket, ogni volta che un imprenditore denuncia un tentativo di estorsione, in quel gesto c’è l’eco del coraggio di chi ha pagato con la vita una scelta di onestà.
Quando vediamo allentarsi le catene del racket, quando vediamo imprenditori che scelgono la legalità senza più dover morire per questo, dobbiamo ricordare che tutto è iniziato con il coraggio di chi per primo ha scelto di non abbassare la testa, con la forza di chi ha preferito morire da uomo libero piuttosto che vivere da schiavo.
Il loro esempio ci insegna che la libertà non è mai gratuita, che la dignità ha un prezzo, ma che questo prezzo – per quanto alto – vale sempre la pena di essere pagato. Perché senza dignità, senza la possibilità di guardare se stessi allo specchio senza vergogna, non esiste vera vita.
Questi eroi silenziosi ci hanno mostrato che anche di fronte alla morte si può scegliere. Si può scegliere di rimanere fedeli ai propri principi, di non tradire i propri valori, di lasciare ai propri figli un’eredità di onestà piuttosto che di compromessi.
La loro lezione più grande è forse questa: che il coraggio non è l’assenza di paura ma la decisione di andare avanti, nonostante la paura. E che a volte, dire “no” a voce alta vale più di mille discorsi sussurrati.