La morte dell’agente penitenziaria che denunciò traffici e abusi nel carcere della Giudecca. Ancora troppe le ombre e i misteri da dipanare.
Venezia – Il 10 giugno scorso Sissy Trovato Mazza avrebbe compiuto 36 anni. L’agente di polizia penitenziaria calabrese è morta sei anni fa, il 12 gennaio 2019, dopo oltre due anni di coma. La sua storia è uno dei casi più controversi della cronaca italiana contemporanea. Una vicenda che intreccia corruzione, omertà e la lotta solitaria di una donna contro un sistema che l’ha infine schiacciata.
L’episodio che cambiò tutto
Il primo novembre 2016, Maria Teresa Trovato Mazza, per tutti Sissy, venne trovata riversa nel suo sangue vicino a un ascensore del piano terra dell’ospedale civile di Venezia. Un proiettile della sua Beretta calibro 9×19, arma in dotazione alle forze dell’ordine, l’aveva colpita alla testa trapassandole il cranio da parte a parte e provocandole danni cerebrali giudicati immediatamente irreversibili. I media parlarono immediatamente di “tentato suicidio” ma, fin da subito, questa versione non convinse i familiari e chi conosceva davvero Sissy.
La ventottenne originaria di Taurianova, in Calabria, era in servizio presso il carcere femminile della Giudecca di Venezia e si trovava in ospedale per far visita a Jessica, una detenuta che aveva partorito da poco. Le due donne avevano parlato alcuni minuti, poi l’agente si era congedata dalla puerpera con l’intenzione di uscire dall’ospedale per raggiungere gli uffici della Giudecca. Una telecamera di sorveglianza la inquadra mentre cammina verso l’ascensore, dove poco dopo sarebbe stata ritrovata supina sul pavimento, riversa in un lago di sangue.

Sissy venne immediatamente soccorsa e condotta in elicottero all’ospedale di Mestre, dove rimase in coma per oltre due anni, assistita quotidianamente dalla famiglia, che non ha mai smesso di credere nella sua innocenza e di lottare per la verità. Il 12 gennaio 2019 il suo cuore si è fermato per sempre.
Una vita dedicata al servizio e allo sport
Sissy non era solo un’agente penitenziaria: era anche una sportiva di talento, portiera campione d’Italia di calcio a 5 nella stagione 2011-2012. Una donna determinata e combattiva, qualità che probabilmente l’avevano portata a denunciare quanto accadeva nel penitenziario in cui lavorava.

Chi la conosceva la descrive come una persona integra, determinata a fare il proprio dovere anche quando questo significava andare contro corrente. Una caratteristica che, secondo la ricostruzione della famiglia e non solo, le costò cara quando iniziò a denunciare gravi irregolarità all’interno del carcere della Giudecca.
Le denunce che scossero il sistema
Prima dell’episodio del primo novembre 2016, Sissy aveva iniziato a segnalare alle autorità competenti una serie di illiceità che aveva riscontrato durante il suo servizio. Le sue denunce riguardavano un cospicuo giro di droga tra agenti e detenute, rapporti sessuali e sentimentali illeciti tra il personale del carcere e le recluse e quello che parrebbe essere un vero e proprio sistema di corruzione che coinvolgeva diversi livelli della struttura penitenziaria.
Sissy aveva raccolto le testimonianze di diverse detenute riguardo questi comportamenti illeciti e le aveva consegnate ai dirigenti del carcere. Tuttavia, quelle denunce pare siano rimaste nel cassetto, mentre diverse sanzioni disciplinari sarebbero state comminate all’agente Trovato Mazza.
Dopo le rivelazioni della poliziotta, l’atmosfera sul posto di lavoro si sarebbe fatta incandescente per la vittima, tanto da farle meditare un eventuale trasferimento. Sembra che la sua professionalità nell’espletamento delle mansioni l’avesse anche portata a occuparsi di questioni amministrative come le buste paga, una sorta di presunto demansionamento per una poliziotta diventata “scomoda” per molti.
Le testimonianze controverse
Nel corso degli anni, diverse testimonianze hanno alimentato il mistero attorno alla morte di Sissy. Alcune ex detenute del carcere della Giudecca hanno confermato l’esistenza dei traffici denunciati dall’agente, parlando di un sistema consolidato di corruzione che coinvolgeva diversi soggetti.

Particolarmente significativa è stata la testimonianza di un ex comandante del carcere, che ha dichiarato che una detenuta gli aveva confidato che a uccidere Sissy sarebbe stata una collega, chiamata a “punire” una poliziotta che rischiava di mandare in frantumi un sistema di equilibri consolidati.
La battaglia legale e le richieste di archiviazione respinte
Nonostante le numerose testimonianze e i dubbi sollevati dalla famiglia, la Procura di Venezia ha archiviato il caso per ben quattro volte, confermando la tesi del suicidio. La famiglia ha sempre rigettato l’ipotesi del suicidio, sostenendo che le prove scientifiche contraddicano questa versione. “Non si è tolta la vita”, ha dichiarato più volte il padre Salvatore. “Da otto anni aspettiamo ancora la verità. Sissy non si è suicidata, lo dimostrano le prove scientifiche”, ha ribadito.

I processi collaterali e la condanna per calunnia
Se il caso principale è stato archiviato, alcuni episodi collaterali sono finiti in tribunale. Il più significativo ha visto protagonista Chadlia Louati, una detenuta 48enne del carcere femminile della Giudecca, che nel gennaio 2020 aveva accusato un’agente di polizia penitenziaria di essere la responsabile della morte di Sissy Trovato Mazza.
La donna è stata condannata a quattro anni di reclusione per calunnia. Secondo la pm Elisabetta Spigarelli, dal processo è risultata provata la colpevolezza dell’imputata, in particolare per la sua malafede nell’accusare ingiustamente l’agente, pur sapendola innocente. La difesa, rappresentata dall’avvocato Mauro Serpico, ha invece sostenuto che la Louati si fosse “intimamente convinta” che l’agente avesse avuto un ruolo nella morte di Sissy Trovato Mazza sulla base di alcuni fatti. Le sue affermazioni volevano solo fornire informazioni utili alle indagini.
L’isolamento professionale
Un aspetto particolarmente doloroso della storia di Sissy riguarda l’isolamento che visse negli ultimi mesi di servizio. Alcune sue colleghe, anche dopo la morte, hanno rilasciato dichiarazioni al vetriolo, definendola tutt’altro che un’eroina e insinuando che avesse “problemi personali molto più grossi dei casini che ha combinato al lavoro”.
Una riprova del clima di ostilità che Sissy dovette affrontare per aver scelto la strada della denuncia invece che quella del silenzio. Un isolamento che, secondo molti, contribuì a creare le condizioni per quello che la famiglia continua a considerare un omicidio mascherato da suicidio.
Chi abbia premuto il grilletto contro la nuca di Sissy ancora non lo sappiamo. Ma è certo (o molto plausibile) che Sissy abbia pagato con la vita quella tipica convinzione di gioventù, l’illusione che se qualcosa non funziona sia solo perché nessuno ha avuto il coraggio di provarci davvero. Se il tempo le avesse concesso la possibilità di crescere, forse avrebbe compreso che, in certi casi, non è la volontà a mancare ma la possibilità stessa di riuscire.
La sua fiducia nel bene, la sua ostinazione nel voler cambiare le cose, le sono costate la vita. Oggi, chi un tempo era al suo fianco la ricorda con astio: la sua scelta di non tacere ha portato sull’isola della Giudecca prima le telecamere dei giornalisti, poi gli occhi severi degli ispettori del Ministero della Giustizia.
Sissy non è riuscita a uscire indenne da un sistema chiuso e opprimente, dove agenti e detenuti condividono ogni giorno la stessa aria, dove chi sorveglia lo fa con un’arma in tasca e in cui domina la legge del silenzio. Ha avuto il coraggio, forse la follia, di pensare di poter cambiare quel mondo.