“Boomers” al lavoro: tra discriminazione e leadership, saranno il futuro delle aziende

Entro il 2030 gli over 55 rappresenteranno il 32% dei lavoratori italiani, ma spesso vengono esclusi dalla formazione e dalle opportunità di crescita. Come conciliare esperienza e innovazione?

Le definizioni delle scienze sociali riguardanti le generazioni sono entrate con forza nel linguaggio comune. Ad esempio, sono tornati agli onori della cronaca i “Baby Boomers”, ossia i nati tra il 1946 e il 1964, gli anni del boom economico, una fase storica segnata dalla forte ripresa dopo la seconda guerra mondiale, migliorando le condizioni di vita della popolazione.

Ebbene, essendosi allungata l’età per la pensione, sono ancora lì sul luogo di lavoro. Spesso non vengono guardati con simpatia dalle nuove leve, perché considerati ancorati al passato, resistenti al mutamento e definiti dei privilegiati. Nonostante le attenzioni dei media siano più rivolte alla Generazione Z (i nati nella seconda metà degli anni ’90 del secolo scorso e nella prima metà degli anni 2010 in pieno sviluppo di internet e dei social) e ai Millennials (i nati tra il 1980 e il 1994, definiti tali in quanto divenuti maggiorenni nel nuovo millennio), la forza lavoro, al momento, è ancora notevolmente rappresentata dagli “over 55”.

Essendosi allungata l’età per la pensione, sono ancora lì sul luogo di lavoro, i nati tra il 1946 e il 1964 sono ancora al lavoro

Secondo le stime diffuse dall’Istat, istituto nazionale di statistica, nel 2030 gli “over 55” rappresenteranno il 32% dei lavoratori italiani. Quindi, un numero consistente da prendere in considerazione con adeguate motivazioni, mentre, in realtà viene accantonato. Adecco, agenzia di somministrazione lavorativa e di risorse umane, ha effettuato uno studio in cui si evidenzia che il 21% degli “over 55” si sente discriminato per l’età e i 2/3 negli ultimi tre anni sono stati esclusi da corsi di formazione. Inoltre a quell’età è complicato trovare nuovi posti di lavoro adeguati al loro percorso.

E’ strano constatare che, mentre gli ultra cinquantenni riscontrano difficoltà, non si può dire lo stesso per le postazioni che detengono il potere decisionale. Infatti, secondo Il Board Index Spencer Stuart, la pubblicazione che analizza le caratteristiche e il funzionamento dei Consigli di Amministrazione delle maggiori società quotate italiane, l’età media dei consiglieri è di circa 60 anni. Un aspetto questo in contraddizione coi dati summenzionati ma più in linea con i pregiudizi relativi ai loro privilegi. Una sorta di realtà duale, che meriterebbe maggiore attenzione. Se le aziende da un lato sono orientate alla flessibilità e innovazione e per questo puntano sulle giovani generazioni, dall’altro rischiano di accantonare l’esperienza e la storia organizzativa di chi vi lavora da decenni.

In mlote società l’età media dei consiglieri è di circa 60 anni

Ed è proprio in questa fase storica, in cui il “tecnologico” e l’ “umano” si confrontano in maniera dialettica che c’è bisogno di una visione complessiva che abbia una progettualità. Le esperienze di chi le possiede non devono essere solo utili all’occorrenza, ma vanno inquadrate come possibilità di inserimento nel nuovo che avanza e arricchire le competenze trasversali.

Il report, infine, evidenzia che solo il 2% dei consiglieri ha un’età inferiore ai 40 anni, mentre il 12% superiore ai 70. E’ chiaro che in tutte le professioni, i cosiddetti “vecchi” sono abbarbicati al potere con le mani e con le unghie, non è che di punto in bianco si possono portare al macero. Si tratta di saper tesaurizzare le risorse a disposizione affinché modernità ed esperienza possano fondersi per essere competitivi. Si riuscirà a farlo? Staremo a vedere!

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