Corruzione in Laguna, nelle carte dei pm i tentativi degli indagati di eludere i controlli

Dalle 900 pagine consegnate al Gip dai magistrati emergono le riunioni lasciando fuori dalla stanza i telefonini e le chat con l’app Signal.

Venezia – Il “sistema Venezia” si reggeva sulla frequente commistione di interessi pubblici e privati, sul mancato funzionamento di un blind trust inefficace o volutamente blando e sulla consapevolezza del sindaco Luigi Brugnaro che l’assessore Renato Boraso chiedeva soldi agli imprenditori. Questo, secondo quanto ricostruisce Repubblica, il quadro tratteggiato dai pm Roberto Terzo e Federica Baccaglini nelle 900 pagine con le quali hanno chiesto al gip Alberto Scaramuzza un pacchetto di misure cautelari – solo in parte accolte – per politici, funzionari e imprenditori protagonisti della Tangentopoli veneziana.

Non solo: dalle carte dell’inchiesta emerge anche il tentativo degli attuali indagati di eludere possibili controlli comunicando su Signal o facendo le riunioni lasciando fuori della stanza i telefonini, strategia riscontrata anche dagli inquirenti genovesi che indagano sul governatore Giovanni Toti.

32 indagati e 14 aziende coinvolte nell’inchiesta della Gdf

Tra le pagine gli inquirenti segnalano un “vasto catalogo di anomalie” nella gestione amministrativa della città, “frequenti interferenze e commistioni con gli interessi economici delle molte società appartenenti al reticolo facente capo all’imprenditore Brugnaro“, ripetuti “conflitti di interesse” del sindaco e dei suoi più stretti collaboratori, Ceron e Donadini, scelti tra i dipendenti delle società di Brugnaro, gestite di fatto dal sindaco anche dopo la costituzione, alla fine del 2017, del blind trust che avrebbe dovuto eliminare il conflitto di interessi tra l’imprenditore e l’amministratore pubblico.

Anomalie che hanno portato ad un vero e proprio terremoto giudiziario in Laguna: 32 gli indagati, 14 le aziende coinvolte, soprattutto per aver pagato tangenti a Boraso, l’ex assessore alla Mobilità in carcere a Padova che si è dimesso dopo l’arresto, in cambio di appalti aggiustati o varianti urbanistiche ad hoc. Il comportamento dell’assessore, stando alle risultanze delle indagini, era ben noto sia al sindaco che ai suoi due collaboratori. Nessuno è mai intervenuto per fermarlo perché garantiva voti e consenso elettorale in una Municipalità importante della terraferma veneziana, Favaro Veneto.

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