Gli investigatori vaticani hanno inviato alla Procura di Roma una parte del fascicolo che tira in ballo lo zio di Emanuela, Mario Meneguzzi. All’epoca dei fatti il filone “familiare” era stato abbandonato nonostante una certa somiglianza tra l’identikit ricostruito da due pubblici ufficiali e lo stesso Meneguzzi che pare si trovasse fuori Roma il giorno della sparizione di Emanuela. Pietro Orlandi tuona su Facebook: “Oggi ho capito che sono delle carogne. Hanno deciso di scaricare tutto sulla famiglia, senza vergogna, senza vergogna, mi fanno schifo“.
Roma – L’inchiesta sul caso Orlandi prosegue non senza qualche scossone. Anzi più di uno. Ignoti hanno bucato tutte e quattro le ruote dell’auto di Pietro Orlandi la notte fra il 5 ed il 6 luglio scorso. La vettura si trovava parcheggiata in Borgo Santo Spirito, a qualche centinaio di metri da via della Conciliazione dove risiede il fratello di Emanuela Orlandi, la giovanissima cittadina vaticana scomparsa 40 anni fa.
Chi ha tagliato le gomme aveva nel mirino proprio l’automobile di Orlandi, atteso che le altre auto parcheggiate non hanno subìto danni. Le indagini sono state avviate immediatamente ma gli investigatori propendono per un atto intimidatorio legato alla battaglia per la verità che Orlandi sta conducendo sin dalla sparizione di Emanuela.
I responsabili del vile atto vandalico potrebbero avere agito anche a seguito delle dichiarazioni di Orlandi su Papa Wojtyla. Quest’ultima ipotesi sembra la più accreditata anche perché qualcuno, che potrebbe essere lo stesso ignoto balordo, avrebbe lasciato una lettera scritta a mano nella cassetta della posta di Maria Pezzano, madre di Emanuela e Pietro, nella quale l’anonimo redattore ha rivolto a Orlandi accuse precise: “Sei un bugiardo e lo sai! Vergognati per le allusioni su Wojtyla”.
L’atto vandalico, nella tempistica, coincide con un vecchio filone d’indagine che è tornato prepotentemente alla ribalta e che riguarda la famiglia Orlandi. Dal punto di vista investigativo in qualsiasi caso di scomparsa le prime indagini partono dal nucleo familiare. Già 40 anni fa, infatti, era balzato agli onori delle cronache lo zio di Emanuela, Mario Meneguzzi, morto anni fa, per una presunta molestia sessuale alla nipote Natalina. A circa tre mesi dalla sparizione della quindicenne romana il cardinale Agostino Casaroli, segretario di Stato, avrebbe inviato una lettera, per posta diplomatica, a un sacerdote sudamericano trasferito a Bogotà, in Colombia, da Papa Wojtyla.
Nella missiva l’alto prelato chiede al prete, padre spirituale degli Orlandi, se corrisponde a verità la presunta violenza sessuale a Natalina, sorella maggiore di Emanuela, ad opera dello zio Mario. La risposta del missionario non si faceva attendere: “Sì, è vero – risponde per iscritto il sacerdote – Natalina è stata oggetto di attenzioni morbose da parte dello zio, me lo confidò terrorizzata: le era stato intimato di tacere oppure avrebbe perso il lavoro alla Camera dei Deputati dove Meneguzzi, che gestiva il bar, l’aveva fatta assumere qualche tempo prima”.
Vero è che Meneguzzi era il gestore del bar interno di Montecitorio e che Natalina Orlandi lavorava alla Camera come impiegata nell’ufficio legale da prima della sparizione della sorella. La vicenda della supposta vittima di molestie sessuali, di contro, aveva fatto scaturire una pista investigativa tanto che Natalina sarebbe stata interrogata da un magistrato inquirente all’epoca dei fatti.
Dunque era stata avviata un’inchiesta e lo stesso Meneguzzi era stato sottoposto a controlli e pedinamenti da parte della Squadra mobile romana. Ma Meneguzzi fa di più: decide di interessarsi personalmente della vicenda della nipote e gestisce la sparizione. Sceglie l’avvocato, pagato dai servizi segreti italiani, e cosi via dicendo.
Alle indagini “private” partecipano anche strani personaggi come Giulio Gangi, agente del Sisde e fidanzato della figlia di Mario Meneguzzi, Monica. Si parlerà anche dell’identikit del rapitore di Emanuela fatto dal vigile Alfredo Sambuco e dal poliziotto Bruno Bosco che avrebbero incontrato Emanuela, prima che entrasse nella scuola di musica attigua alla basilica di Sant’Apollinare, mentre parlava con un uomo fermo davanti a una BMW con in mano volantini della Avon.
La ragazzina, uscendo anzitempo da scuola, dove era arrivata a lezione stranamente in ritardo, parlerà per telefono con la sorella Federica a cui riferirà di avere incontrato un uomo che le aveva proposto di distribuire proprio volantini della nota casa di cosmetici. Dopo quella telefonata di Emanuela si perderanno le tracce. Meneguzzi, interrogato, dirà che quel giorno si trovava fuori Roma. La pista “Avon” perderà di consistenza e finirà in archivio: “Vogliono scaricare le responsabilità sulla famiglia – attacca Pietro Orlandi in conferenza stampa – No, questa carognata non può passare così”. Anche Natalina Orlandi difende il parente deceduto anni fa:”Mio zio mi fece avances verbali ma finì lì“.
I magistrati inquirenti vaticani e italiani, una volta riaperte le indagini, dovranno necessariamente ripercorrere tutte le piste. Soprattutto quelle battute in maniera superficiale o addirittura trascurate all’epoca dei fatti. Anche il più microscopico indizio, dopo 40 anni, può essere decisivo. Le polemiche servono a poco se davvero si intende scoprire la verità. E se non si ha nulla da temere.