Al processo per l’attentato di Brescia del 1974, l’ex ragazza del bar di Verona nega di aver riconosciuto l’imputato. Nuove ombre sull’indagine dell’epoca.
Brescia – “Mai conosciuto uno Zorzi. Non ho idea di chi fosse”. Con queste parole, ieri in Corte d’Assise a Brescia, Daniela Bellaro, oggi pensionata, ha smontato l’alibi di Roberto Zorzi, il settantenne marmista veronese ed ex ordinovista accusato di essere l’esecutore materiale della strage di Piazza della Loggia, che il 28 maggio 1974 causò 8 morti e oltre 100 feriti. La testimonianza della donna, che all’epoca aveva 14 anni e aiutava il padre nel bar-biglietteria della stazione delle filovie in via Mameli a Verona, ha fatto vacillare la versione difensiva di Zorzi, fermato per 16 ore all’indomani dell’attentato e poi rilasciato. Un caso che, a 51 anni di distanza, continua a sollevare interrogativi su omissioni e depistaggi.
La sera della strage, Zorzi – oggi allevatore di dobermann a Seattle sotto l’insegna “Littorio” – fu fermato dai carabinieri. Interrogato, dichiarò di essersi trovato, alle 10 del 28 maggio nel bar di via Mameli, lontano da Brescia, dove una bomba nascosta in un cestino esplose durante una manifestazione antifascista. A suffragare la sua versione, il rapporto dell’allora capitano Francesco Delfino, firmato dal suo braccio destro Paolo Siddi, annotava che la figlia del titolare del bar – Daniela Bellaro – era “certissima” di averlo visto seduto ai tavoli a sfogliare riviste, in compagnia di due giovani, Claudio Antolini e Massimo Galvani. Ma ieri, davanti ai giudici, Bellaro ha negato tutto: “Non ho mai usato la parola ‘certissima’, non è nel mio vocabolario. Non ricordo nessuno Zorzi. Le forze dell’ordine parlarono con mio padre per due minuti, a me non chiesero nulla”.
La teste ha raccontato di un episodio vago: “Vennero al bar cercando un ragazzo, ma mio padre non sapeva nessun nome”. Nessun riscontro, all’epoca, sui presunti compagni di Zorzi, mai identificati formalmente. Una lacuna che il difensore dell’imputato, Stefano Casali, ha cercato di colmare ricordando una deposizione del 2015 al colonnello del Ros Massimo Giraudo. In quell’occasione, Bellaro avrebbe detto di conoscere Zorzi – “alto e antipatico” – perché “gli facevamo l’abbonamento per il bus”. “Mai detta una frase simile”, ha ribattuto secca la pensionata, negando anche l’ipotesi di un “filarino” suggerita da Giraudo. “Zero”.
L’udienza ha visto sfilare altri testi dell’accusa. Valter Parigi, ex carabiniere di Sant’Ambrogio, e Roberto Albino Zorzi, attuale sindaco del paese dove l’imputato risiedeva nel ‘74, si sono trincerati dietro una serie di “non ricordo”. Più incisivo Luigi Galvani, fratello di Massimo: “Una volta vidi Zorzi al bar degli autobus, ma non so quando”. Un ricordo che non colloca l’imputato il giorno della strage. Elisabetta Faccincani, ex moglie di un leader di Ordine Nuovo, ha invece dipinto un quadro inquietante: “Lo vidi sotterrare in giardino quelle che penso fossero armi. Quando fu fermato, ero convinta fosse già scappato in Grecia”.
Il processo, che vede Zorzi come presunto esecutore materiale dopo decenni di indagini e depistaggi, si scontra con le fragilità di un’inchiesta iniziale zoppicante. Il rapporto Delfino, che puntava sull’alibi del bar, appare oggi contraddetto dalla testimonianza diretta di Bellaro, mentre l’assenza di verifiche su Antolini e Galvani alimenta i dubbi su cosa accadde davvero quel 28 maggio. La difesa di Zorzi insiste sull’estraneità del suo assistito, ma le parole di Faccincani e il passato ordinovista dell’imputato – legato a una destra eversiva mai del tutto chiarita – pesano come macigni. Intanto, a Seattle, tra i suoi dobermann, Zorzi attende l’esito di un dibattimento che potrebbe riscrivere una delle pagine più nere della storia italiana.