Prigioniero di un errore: 18 anni da innocente dietro le sbarre

L’allevatore sardo Pietro Paolo Melis scagionato dopo quasi due decenni di detenzione per un sequestro mai commesso.

Nuoro – Provate a immaginare di congelare la vostra esistenza oggi e di riprenderla esattamente come l’avete lasciata tra diciotto anni. Tutto ciò che accadrà nel frattempo non vi riguarderà: le persone care invecchieranno o moriranno senza di voi, i vostri progetti svaniranno, chi amate potrebbe dimenticarvi. È esattamente quello che è successo a un uomo arrestato nel 1997 e liberato solo nel 2016, quando finalmente qualcuno ha creduto a ciò che ripeteva dal primo giorno: “Quella voce non è la mia”.

Tutto inizia in una mattina di primavera del 1995. Vanna Licheri, imprenditrice agricola di Abbasanta, si trova nella stalla della sua azienda alle prime luci dell’alba quando quattro figure mascherate irrompono e la prelevano. Il commando agisce con una sicurezza quasi arrogante: l’operazione si svolge a distanza ravvicinata dal centro in cui si addestrano le unità specializzate nel contrastare questo tipo di crimini. Una provocazione che sottolinea la spregiudicatezza del gruppo.

Quella madre di quattro figli non tornerà mai più a casa. I familiari vorrebbero trattare, sono disposti a tutto pur di riaverla, ma il sistema giuridico blocca ogni movimento patrimoniale. Devono affidarsi unicamente all’apparato investigativo. Le settimane diventano mesi. Secondo chi indaga, nell’autunno dello stesso anno qualcosa si spezza definitivamente: le comunicazioni cessano e la donna probabilmente muore. Del suo corpo non si troverà mai traccia.

Passa quasi un triennio. Un allevatore di Mamoiada, trentottenne con progetti matrimoniali e una vita davanti, viene bloccato dai carabinieri mentre rientra verso casa. È dicembre, fa freddo e Pietro Paolo Melis si trova davanti armi spianate e un’ordinanza di custodia cautelare. Nei mesi precedenti gli era già arrivato un avviso formale relativo alle indagini sulla scomparsa della Licheri, ma lui non si preoccupa: quella donna è una perfetta sconosciuta, mai incrociata, mai sentita nominare prima del sequestro. Anzi, la sua stessa famiglia ha vissuto l’incubo di un rapimento. Come potrebbe essere coinvolto?

Eppure lo arrestano. Con lui finiscono in manette altre quattro persone, ma quando i processi mettono la parola fine, solo due nomi porteranno il marchio della condanna: Giovanni Gaddone, ritenuto un intermediario dell’organizzazione criminale, e Melis.

L’accusa si regge principalmente su una registrazione. Nelle intercettazioni ambientali emerge una conversazione tra Gaddone e un altro individuo, qualcuno che discute aspetti organizzativi legati alla detenzione della vittima. Una perizia fonica attribuisce quella voce a Melis. Per la Procura il cerchio si chiude: lui è la mente, colui che ha orchestrato tutto.

In tribunale l’imputato piange, protesta, spiega che la sua storia familiare rende impensabile un suo coinvolgimento in crimini simili. Ripete ossessivamente che quella registrazione non lo riguarda, che non è lui a parlare. Ma serve ben altro che parole per scardinare una perizia tecnica. Nel dicembre 1999 la sentenza diventa definitiva: tre decenni di reclusione.

I giudici, nelle loro argomentazioni, spiegheranno che la voce non è stata considerata l’unica prova, ma un tassello che si incastra con altri elementi. Il problema, secondo loro, è che l’imputato non ha smontato nel dettaglio il ruolo dell’uomo presente nelle registrazioni, limitandosi a negare di essere lui. Un’ombra interpretativa che pesa come un macigno.

Maria Antonietta Salis e Alessandro Ricci decidono che questa storia non può finire così. Nel 2012 presentano istanza di revisione alla Corte d’Appello romana. Chiedono di riesaminare quella registrazione con strumenti tecnologici più sofisticati, capaci di analisi che anni prima erano impossibili. La risposta è un secco NO: secondo i magistrati romani, le nuove tecnologie non possono mettere in discussione perizie già validate.

I difensori non si fermano. Ricorso in Cassazione, rinvio a Perugia, nuovo diniego, altro ricorso alla Suprema Corte. È un rimpallo giudiziario estenuante che dura anni. Finalmente ottengono l’autorizzazione a un vero processo di revisione. Questa volta le analisi vengono effettuate con software all’avanguardia.

Le risultanze sono inequivocabili: quella voce appartiene a qualcun altro. Non solo: l’analisi linguistica dell’accento dimostra che chi parla non proviene dalla stessa zona geografica di Melis. È un individuo originario di un’altra area, mai identificato dalle indagini. La prova cardine dell’accusa si rivela un abbaglio colossale.

Quando la Corte d’Appello di Perugia lo assolve con formula piena, Melis ha cinquantasei anni. Diciotto in più rispetto al giorno dell’arresto. Quasi due decenni trascorsi in istituti penitenziari diversi, prima a Spoleto poi a Nuoro, con brevissimi permessi per vedere i genitori. Il padre è morto mentre lui era recluso. La madre, ormai ultraottantacinquenne, quando lo rivede libero stenta a realizzare che non sia un’illusione.

La donna con cui progettava una famiglia ha mantenuto il legame per otto anni, poi la distanza e i limiti delle visite hanno sgretolato il sentimento. Lui non l’ha nemmeno cercata dopo la scarcerazione. Non ha organizzato celebrazioni, non ha voluto feste: “Cosa dovrei festeggiare? Mi hanno distrutto”, ha commentato con amarezza.

Per non soccombere psicologicamente, durante la detenzione si è dedicato allo studio, conseguendo un diploma artistico all’interno del penitenziario. Con altri detenuti ha persino partecipato a un concorso progettuale sulle fontane di Spoleto, vincendo e ottenendo come riconoscimento sette ore di uscita. Briciole di normalità in un’esistenza sospesa.

Il caso Melis non è un caso isolato. Le statistiche collocano il nostro Paese al primo posto in Occidente per errori giudiziari. E proprio nell’ambito dei sequestri sardi si contano altri casi drammatici.

Melchiorre Contena ha scontato interamente una pena di trentuno anni prima che si riconoscesse la sua estraneità ai fatti. Le prove della sua innocenza erano disponibili da almeno vent’anni, quando cominciarono ad arrivare lettere anonime che indicavano i veri autori del rapimento di Marzio Ostini. Ma il meccanismo giudiziario non si è fermato in tempo.

Giuseppe Gulotta ha perso ventidue anni per una strage che non aveva commesso, quella di Alcamo Marina. Solo di recente gli è stato riconosciuto un risarcimento milionario, che però non può restituire i decenni perduti, gli affetti dissolti, le possibilità cancellate.

Giuseppe Gulotta

La vicenda di Mamoiada intreccia due drammi che non si toccano ma si rispecchiano. Vanna Licheri è stata strappata alla vita e alla sua famiglia, inghiottita da un buco nero senza possibilità di ritorno. Pietro Paolo Melis ha perso quasi due decenni della sua esistenza, pagando responsabilità altrui, vittima di un errore che ha polverizzato i suoi sogni e le sue relazioni.

Rimangono interrogativi senza risposta. Chi era davvero l’uomo di quella registrazione? Chi ha ideato e realizzato il sequestro? E soprattutto: quante altre persone stanno scontando condanne per crimini mai commessi, aspettando che qualcuno abbia il coraggio e la determinazione di cercare la verità oltre le apparenze?

Quando la giustizia ripara i propri errori, non c’è vittoria da celebrare. C’è solo il tentativo disperato di ricucire ciò che è stato lacerato, sapendo che alcuni strappi non si possono più riparare.