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Oltre i muri: la tragedia di Genova e il fallimento del sistema penitenziario

Quando la solidarietà nasce dal dolore: la risposta della città di Genova al diciottenne seviziato e violentato nel carcere di Marassi.

Genova – La città di Genova ha risposto con un gesto di straordinaria umanità a uno degli episodi più drammatici della cronaca carceraria recente. Oltre 200 persone – operatori sociali, avvocati, medici, insegnanti e semplici cittadini – hanno firmato un appello per sostenere il percorso di riabilitazione di un diciottenne vittima di brutali sevizie nel carcere di Marassi. Un ragazzo in attesa di giudizio che, tra il 1° e il 3 giugno, sarebbe stato sequestrato e torturato per due giorni da altri detenuti, subendo violenze fisiche e sessuali di una crudeltà inaudita.

Il cappellano del carcere, con oltre vent’anni di esperienza alle spalle, ha dichiarato di non aver mai assistito a nulla di simile. Una testimonianza, quella del religioso, che dovrebbe far riflettere non solo sulla gravità dell’episodio ma anche su quanto sia degenerata la situazione nelle strutture penitenziarie italiane.

Il fallimento del sistema chiuso

L’episodio di Genova non è un caso isolato ma il sintomo di un sistema carcerario malato che ha scelto la strada della chiusura anziché quella della trasparenza. Come sottolineava già anni fa l’associazione Antigone nel suo primo rapporto “Il carcere trasparente”, è proprio la mancanza di trasparenza che alimenta gli abusi e le violenze.

Il fallimento del sistema chiuso

Un carcere chiuso al territorio, blindato dietro muri sempre più alti e barriere sempre più invalicabili, diventa inevitabilmente un luogo dove può accadere di tutto. Quando la città entra nelle strutture penitenziarie solo per firmare appelli dopo che i danni sono già stati compiuti, vuol dire constatare il fallimento dell’obiettivo fondamentale di ogni sistema carcerario moderno: la prevenzione.

La sicurezza vera: conoscenza, non muri

Gli organismi internazionali parlano di “sorveglianza dinamica” per descrivere un approccio alla sicurezza penitenziaria fondato sulla conoscenza delle relazioni e delle dinamiche interne, non sulla costruzione di barriere fisiche. Un direttore che governa dalla propria scrivania senza mai scendere nelle sezioni, agenti di polizia penitenziaria ed educatori che non conoscono le interazioni tra i detenuti: questo è il ritratto di un sistema destinato al fallimento.

Polizia penitenziaria

La vera sicurezza si costruisce attraverso la prossimità, la conoscenza, il vivere quotidianamente gli spazi detentivi. Solo così è possibile intercettare i segnali di pericolo, prevenire le dinamiche violente, proteggere i soggetti più vulnerabili. I muri, da soli, non bastano a dare sicurezza: creano soltanto l’illusione di controllo mentre, nell’ombra, si consumano tragedie come quella di Marassi.

L’anticamera del degrado

Il modello carcerario attuale produce sistematicamente le condizioni per il degrado: celle affollate e insalubri, ozio forzato, assenza di stimoli e opportunità. Quando le persone vengono trattate “come bestie”, rinchiuse senza spazio né dignità, non dovremmo sorprenderci se emergono dinamiche di violenza estrema.

La strada da percorrere

La solidarietà dei cittadini genovesi rappresenta un esempio prezioso di come la società civile possa farsi carico delle responsabilità che le istituzioni spesso lasciano cadere nell’oblio. Ma non bastano i gesti post-trauma: serve un cambio di paradigma strutturale.

Le carceri devono tornare ad essere luoghi di possibile recupero, non depositi umani. Questo significa investire in educazione, formazione, attività lavorative. Significa aprire le strutture al territorio, permettere che la città entri nel carcere prima che sia troppo tardi. Significa adottare un approccio preventivo basato sulla conoscenza delle dinamiche sociali interne.

Una questione di civiltà

Il caso di Genova ci pone davanti a una scelta di civiltà. Possiamo continuare a nascondere i problemi dietro muri sempre più alti, illudendoci che la sicurezza si costruisca con cancelli e sbarre. Oppure possiamo scegliere la strada più difficile ma più efficace della trasparenza, dell’apertura, della prevenzione attraverso la conoscenza.

La necessità di una riforma

La risposta della città di Genova, che si è stretta attorno alla vittima chiedendo che lo Stato si faccia carico del suo percorso di riabilitazione, dimostra che esiste ancora una sensibilità civica capace di opporsi alla logica dell’abbandono. Ora tocca alle istituzioni raccogliere la sfida e trasformare l’indignazione in azione concreta per una riforma profonda del sistema penitenziario.

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