Maria Chindamo, l’imprenditrice che ha sfidato ‘ndrangheta e patriarcato

Tra rinvii, testimoni mancanti e un dibattimento che procede a rilento, il fratello Vincenzo rinnova l’appello alla giustizia.

Limbadi – Sono passati quasi dieci anni da quel 6 maggio 2016, quando Maria Chindamo scomparve davanti al cancello della sua azienda agricola a Limbadi. Un decennio senza un corpo su cui piangere, senza un luogo dove portare un fiore, senza la possibilità di dire addio. Eppure il fratello Vincenzo non si è mai arreso, trasformando il dolore in una battaglia per la verità che continua nelle aule del Palazzo di Giustizia di Catanzaro.

Il 18 dicembre scorso era attesa la sua testimonianza davanti alla Corte d’Assise, nell’ambito del procedimento che vede imputato Salvatore Ascone per concorso nell’omicidio dell’imprenditrice quarantaduenne di Laureana di Borrello. Ma come già accaduto in passato, l’udienza è stata rinviata. Un altro slittamento che si aggiunge ai tanti di un processo che sembra procedere con una lentezza esasperante.

Partito nel marzo del 2024, il dibattimento avrebbe dovuto dare risposte a una famiglia che da troppo tempo attende giustizia. Sulla carta sono previsti circa cinquanta testimoni da ascoltare. La realtà racconta un’altra storia: in quasi due anni è stata escussa soltanto una manciata di persone, tra cui il carabiniere che coordinò le prime indagini e alcuni collaboratori di giustizia che hanno fornito dettagli agghiaccianti sulla sorte dell’imprenditrice.

Maria Chindamo

Secondo quanto emerso dalle dichiarazioni dei pentiti, Maria sarebbe stata eliminata e il suo corpo fatto sparire in modo atroce, cancellando ogni traccia. Una fine che rappresenta il doppio oltraggio tipico della lupara bianca: privare le vittime non solo della vita, ma anche i familiari della dignità del lutto.

Salvatore Ascone, vicino di terreno della vittima, è accusato di aver manomesso l’impianto di videosorveglianza installato presso la sua abitazione, situata proprio di fronte al punto in cui venne ritrovata l’automobile di Maria ancora con il motore acceso e tracce di sangue. Quella manomissione avrebbe permesso agli esecutori materiali dell’omicidio di agire senza timore di essere filmati.

Secondo la ricostruzione degli inquirenti della Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro, dietro l’aggressione ci sarebbe un doppio movente. Da un lato la vendetta familiare: l’ex suocero di Maria, Vincenzo Punturiero (deceduto nel 2017 prima di poter essere processato), avrebbe ordinato l’omicidio ritenendo la donna responsabile del suicidio del figlio, avvenuto esattamente un anno prima della scomparsa. Maria aveva infatti chiesto la separazione e si era rifatta una vita, iniziando una nuova relazione.

L’azienda agricola di Limbadi

Dall’altro lato ci sarebbero gli interessi della criminalità organizzata. I terreni dell’azienda agricola gestita dalla vittima facevano gola alla cosca Mancuso, egemone in quel territorio. Ascone avrebbe agito proprio in quanto considerato referente di quella famiglia mafiosa nell’area di Montalto.

Prima di varcare la soglia dell’aula per testimoniare, Vincenzo Chindamo ha affidato ai giornalisti le sue emozioni, parlando di un percorso lungo dieci anni vissuto non da solo ma insieme a un territorio che ha scelto di non voltarsi dall’altra parte. Ha ricordato le collaborazioni ricevute, gli aiuti, i conforti di chi ha deciso di schierarsi dalla parte della legalità contro l’ambiente patriarcale, violento e mafioso che ancora oggi rallenta lo sviluppo della Calabria.

Le sue parole hanno il peso di chi sa che ogni rinvio è una ferita che si riapre, un’attesa che si prolunga, un diritto negato. I tempi tecnici della giustizia diventano un calvario per chi resta, costretto a convivere con l’assenza e con domande che aspettano ancora risposte.

Negli anni, la vicenda di Maria Chindamo è diventata molto più di una tragedia familiare. È il simbolo di una donna che ha osato ribellarsi alle logiche del controllo mafioso e patriarcale, pagando con la vita la sua voglia di libertà e autodeterminazione. Il suo caso viene ricordato ogni anno con iniziative che coinvolgono scuole, associazioni e istituzioni, raccolte sotto il progetto “Illuminiamo noi le terre di Maria”.

L’azienda agricola della vittima è stata affidata al Consorzio Goel, sottraendola definitivamente alle mire criminali. Una strada di Limbadi porterà presto il nome di Maria. Piccoli segnali di riscatto in un territorio che cerca di liberarsi dall’oppressione della ‘ndrangheta.

Ma per Vincenzo e per i tre figli di Maria, Letizia, Federica e Vincenzino, questi gesti, per quanto significativi, non bastano. Serve una sentenza, serve che la verità giudiziaria faccia luce definitivamente su quanto accaduto quella mattina di maggio. Serve, soprattutto, che il processo non si areni nell’infinita lentezza della burocrazia giudiziaria.

L’auto di Maria Chindamo

Il dibattimento riprenderà (forse) nelle prossime settimane. La Corte d’Assise dovrà ascoltare ancora decine di testimoni prima di arrivare alla fase finale del processo. Se i ritmi dovessero rimanere quelli attuali, potrebbero volerci ancora anni prima di una sentenza definitiva.

Nel frattempo, la famiglia Chindamo continua la sua battaglia civile, sostenuta dall’associazione Libera, da Penelope Italia e da numerose realtà del territorio. Una battaglia che non riguarda solo la ricerca di giustizia per Maria, ma rappresenta un esempio per tutte le vittime innocenti delle mafie e per chiunque si opponga alle logiche della violenza e della sopraffazione.

Vincenzo lo ha ribadito più volte: ogni 6 maggio, davanti a quel cancello dove tutto è iniziato, si rinnova una condanna morale contro la cultura mafiosa e patriarcale. Una sentenza pronunciata dalla società civile, in attesa che arrivi anche quella dello Stato.