Il procuratore di Perugia che indaga sul dossieraggio e che si è detto inquietato, era tra le 46 toghe di cui il 24enne aveva le password.
Roma – Carmelo Miano era in possesso di 46 password di altrettanti magistrati inquirenti tra Firenze, Perugia e Torino, tra cui anche quelle dei procuratori del capoluogo umbro e di quello toscano. Ma chi sono le toghe sotto scacco? La notizia nella notizia è questa: dal procuratore di Napoli Nicola Gratteri a quello di Perugia Raffaele Cantone. L’hacker siciliano di 24 anni arrestato il primo ottobre dalla Polizia Postale a Roma, alla Garbatella, aveva copiato sui suoi dispositivi l’intero data-base utenti del Ministero della Giustizia, dal quale ha poi estrapolato le password. Una notizia che ha “incuriosito e inquietato” il procuratore della Repubblica del capoluogo umbro, Cantone, che sta tra l’altro coordinando l’indagine sugli accessi abusivi alle banche dati in uso alla Direzione nazionale antimafia da parte di Pasquale Striano e nella quale è indagato, oltre all’ufficiale della Gdf, anche l’ex magistrato Antonio Laudati.
Un intreccio inquietante e molto pericoloso. Un caso quello sul dossieraggio non ancora concluso. Nelle prossime settimane il tribunale del Riesame dovrà decidere sul ricorso della Procura contro la decisione del gip di negare l’applicazione degli arresti domiciliari per il tenente della guardia di finanza Pasquale Striano e per l’ex magistrato della Dna Antonio Laudati. Al momento proseguono le audizioni anche in Commissione antimafia. Ecco perché la Procura di Napoli ritiene estremamente pericoloso l’hacker 24enne. Per gli inquirenti l’imponente quantità di dati sequestrati a Miano il primo ottobre scorso, quando è stato arrestato dalla Polizia Postale nella sua abitazione di Roma, poco si conciliano con la circostanza, sostenuta dall’indagato, che l’unico obiettivo era conoscere lo stato delle indagini che lo riguardavano.
Il movente dichiarato da Miano non corrisponderebbe con quanto emerso dagli approfondimenti investigativi (che proseguono) e che invece parrebbero sostenere la tesi secondo cui il suo reale obiettivo era vendere i dati. I magistrati del pool cybercrime di Napoli non escludono connessioni tra l’hacker ed eventuali committenti. E tra gli indizi a sostegno di questa tesi c’è, tra l’altro, il wallet trovato in suo possesso con diversi milioni in criptovaluta (già sequestrato). Ed ecco perché la Procura di Napoli, nel corso dell’udienza al Riesame di ieri durata poco meno di un paio d’ore, ha depositato una memoria con la quale esprime parere contrario all’attenuazione della misura cautelare del carcere con quella dei domiciliari e al trasferimento degli atti d’indagine presso la Procura di Perugia, per competenza.
Entrambe le istanze – che vedono assolutamente contrari i sostituti procuratori Claudio Orario Onorati e Mariasofia Cozza, sempre più convinti della pericolosità dell’hacker – sono state illustrate dall’avvocato Genchi, che ha poi depositato in una memoria di 33 pagine. Il difensore di Miano, Gioacchino Genchi, ha depositato la memoria dove sottolinea che Miano “oltre agli accessi ai server e alle email della Guardia di Finanza, della Tim, della Leonardo e di altre aziende che operano nel settore delle infrastrutture informatiche istituzionali”, ha poi acceduto alle caselle email personali di una quantità di magistrati inquirenti, da Gela a Brescia, passando per Perugia, Roma e naturalmente Napoli, a cominciare da Gratteri che però, ha ammesso lo stesso Miano, faceva scarso uso di quella mail e preferiva “canali di comunicazione più sicuri per lo scambio di informazioni riguardanti indagini importanti e assai riservate”, fin da quando era in servizio in Calabria.
Genchi pur riconoscendo le abilità del suo assistito, ha puntato il dito contro le debolezze dei sistemi di sicurezza a guardia dei dati del ministero: una situazione “inquietante”, sostiene, adombrando anche l’eventualità che le porte del sistema informatico lasciate aperte da Miano possano ora favorire altre incursioni “molto più gravi e preoccupanti di quelle che ha commesso il mio assistito”. Miano aveva a disposizione, ha detto Genchi, tutte le caselle mail usate per trasmettere le notizie di reato, gli ordini di fermo, le misure cautelari e i decreti di intercettazione di tutte le procure e le Dda d’Italia”. Per il legale, in sostanza, “se Miano fosse stato un criminale avrebbe potuto mandare veramente in tilt il sistema Giustizia italiano. Ma non l’ha fatto: gli unici dati che ha visto sono quelli che lo riguardano, ossessionato e preoccupato com’era delle indagini sul suo conto”.
Una ricostruzione dei fatti su cui però non è d’accordo la Procura partenopea per la quale l’obiettivo di Miano era acquisire dati sensibili da vendere, ritenendo possibile l’eventualità che l’hacker 24enne abbia potuto rispondere alle sollecitazioni di qualche committente. Ma non è tutto. L’hacker siciliano, mentre era sotto indagine avrebbe offerto le sue competenze all’Fbi, “in importanti investigazioni internazionali”, all’Aisi (Agenzia informazioni e sicurezza interna) e anche alla stessa Polizia Postale che poi l’ha arrestato, il primo ottobre, a Roma, nell’ambito dell’indagine della procura partenopea sulle violazioni del sistema informatico del Ministero della Giustizia.
Ad affermarlo è Genchi, che in un passaggio della sua memoria indica le collaborazioni di Miano, “tutte documentate nei sistemi informatici in sequestro”, per dimostrare che il giovane ingegnere informatico recluso in una cella del carcere romano di Regina Coeli non è un criminale, ma “un giovane sprovveduto che, nonostante la sua cultura e la sua intelligenza, non ha saputo resistere alla curiosità di acquisire maldestramente notizie sui procedimenti penali a suo carico, nei quali aveva peraltro ottenuto buoni risultati difensivi, fino ad avere restituiti dal pubblico ministero procedente tutte le copie forensi dei supporti magnetici sequestratigli, dopo che lo stesso pubblico ministero gli aveva pure restituito i supporti originali”.