La figlia ritratta in aula, ma la testimonianza materna e l’aiuto di un carabiniere consente ai giudici di ricostruire anni di abusi.
Genova – La sentenza che ha portato a dieci anni di reclusione per un uomo di 40 anni, ritenuto responsabile di violenza sessuale, lesioni, sequestro di persona e stalking, nasce da una catena di interventi decisivi che hanno impedito che una lunga scia di abusi restasse nell’ombra.
L’inchiesta avrebbe potuto fermarsi sul nascere se non fosse stato per l’intuito di un carabiniere e, successivamente, per il ruolo determinante della madre della vittima.
Il militare, davanti a una donna visibilmente provata, ha colto segnali che andavano oltre il motivo ufficiale della sua presenza in caserma, riuscendo a instaurare un dialogo che ha fatto emergere una situazione di maltrattamenti. Più avanti, quando la donna – fragile e sotto pressione – ha deciso di ritrattare le accuse durante il processo, è stata la madre a ricostruire davanti ai giudici il contesto di violenze e minacce che la figlia aveva subito.
I fatti risalgono a mesi prima, in un quartiere del capoluogo ligure. Dopo l’ennesima lite, l’uomo avrebbe aggredito la compagna e distrutto il suo telefono. La donna si era recata dai carabinieri per denunciare lo smarrimento della sim, ma i lividi e l’atteggiamento impaurito avevano insospettito l’operatore di servizio, che ha approfondito la situazione. È così emersa una relazione segnata da abusi ricorrenti, aggravati dall’uso di crack da parte dell’uomo.
Sono scattate immediatamente le procedure previste dal codice rosso e l’ammonimento del questore, misure che però non sono state sufficienti a fermare la violenza. A maggio è arrivato l’arresto, dopo che la donna aveva tentato di fuggire chiedendo aiuto dal ballatoio di casa. Un passante ha allertato i soccorsi; in ospedale i medici hanno certificato 21 giorni di prognosi. La pm Valentina Grosso ha quindi chiesto il carcere, misura inizialmente concessa e poi trasformata in arresti domiciliari dal Riesame.
Nonostante le restrizioni, i contatti tra i due sono proseguiti fino all’apertura del processo. In aula la vittima ha negato le violenze già denunciate, ma la testimonianza della madre ha consentito di ricostruire un quadro fatto di minacce, soprusi e paura. Proprio quelle dichiarazioni hanno contribuito in modo decisivo alla condanna e alla decisione dei giudici di disporre nuovamente il carcere per l’imputato, chiudendo una vicenda giudiziaria segnata da silenzi, pressioni e coraggio.