Alessandro Zan: “Si tratta di un passo storico e significativo verso il riconoscimento dei diritti delle persone transgender”.
Strasburgo – La rettifica dei dati relativi all’identità di genere non può essere subordinata alla prova di un trattamento chirurgico. Lo stabilisce la Corte di giustizia dell’Ue in una sentenza. Nel 2014 VP, una persona di cittadinanza iraniana, ha ottenuto lo status di rifugiato in Ungheria invocando la sua transidentità e producendo certificati medici rilasciati da specialisti in psichiatria e ginecologia. Secondo questi attestati, anche se tale persona era nata donna, la sua identità di genere era maschile. A seguito del riconoscimento del suo status di rifugiato su tale base, detta persona è stata tuttavia iscritta come donna nel registro dell’asilo, tenuto dall’autorità ungherese competente in materia di asilo e contenente i dati identificativi, compreso il genere, delle persone che hanno ottenuto tale status in Ungheria.
Nel 2022, sulla base degli stessi certificati medici, VP ha chiesto in particolare a tale autorità di rettificare l’indicazione del suo genere in detto registro, ai sensi del regolamento generale sulla protezione dei dati (RGPD). Tuttavia, tale domanda è stata respinta con la motivazione che VP non aveva dimostrato di aver subito un trattamento chirurgico di riassegnazione sessuale. VP ha proposto ricorso avverso tale rigetto dinanzi alla Corte di Budapest-Capitale (Ungheria). Pur precisando che il diritto ungherese non prevede una procedura di riconoscimento giuridico della transidentità, tale giudice chiede alla Corte di giustizia se, da un lato, il RGPD imponga a un’autorità nazionale incaricata della tenuta di un registro pubblico di rettificare i dati personali relativi all’identità di genere di una persona fisica qualora tali dati non siano esatti e, dall’altro, se uno Stato membro possa subordinare, mediante una prassi amministrativa, l’esercizio del diritto di rettifica di tali dati alla produzione di prove, in particolare, di un trattamento chirurgico di riassegnazione sessuale“.
Ebbene, uno Stato membro non può in alcun caso subordinare l’esercizio del diritto di rettifica alla presentazione di prove di un trattamento chirurgico di riassegnazione sessuale. Infatti, un siffatto requisito lede, in particolare, l’essenza del diritto all’integrità della persona e del diritto al rispetto della vita privata, di cui rispettivamente agli articoli 3 e 7 della Carta. Inoltre, tale requisito non è, in ogni caso, necessario né proporzionato al fine di garantire l’affidabilità e la coerenza di un registro pubblico, quale il registro dell’asilo, dal momento che un certificato medico, ivi compresa una precedente psicodiagnosi, può costituire un elemento di prova pertinente e sufficiente al riguardo.
“Oggi la Corte di Giustizia europea ha emesso una sentenza storica: l’identità di genere non è subordinata alla chirurgia, – afferma in una nota Alessandro Zan, responsabile Diritti nella segreteria nazionale del PD ed europarlamentare – non serve quindi la prova di un aver effettuato un intervento chirurgico per modificare i propri dati sul genere. Si tratta di un passo significativo verso il riconoscimento dei diritti delle persone transgender, nel rispetto della Carta dei diritti fondamentali Ue. Ma mentre in Europa si fanno passi avanti, in Italia siamo fermi al Medioevo. Meloni prenda appunti: è inaccettabile che manchi ancora una legge chiara e inclusiva per il riconoscimento dell’identità di genere. Serve una politica che tuteli i diritti di tutte e tutti, che scavalchi le barriere discriminatorie senza compromessi”.