L'esodo continua inesorabile con decine di migliaia di persone che fuggono credendo in un futuro migliore
La Bosnia Erzegovina sta perdendo la guerra e con essa tutta la comunità internazionale. Non si tratta di un conflitto armato, ma del buio istituzionale creatosi dalla firma dei trattati di Dayton ad oggi. La ricostruzione della nazione non è avvenuta se non a livello formale, il sostegno dichiarato dai paesi più sviluppati economicamente non ha risollevato lo Stato dalla crisi post-guerra, al contrario ha creato una realtà di estrema depressione e disoccupazione. Gli investimenti effettuati nella ex regione jugoslava hanno avuto il solo scopo di introdurre nella quotidianità della popolazione prodotti appartenenti alle grandi multinazionali, che hanno di fatto mutato il consumo locale, creando un illusorio manto di occidentalizzazione. La valorizzazione sociale del lavoro non ha attecchito in Bosina Erzegovina o, ancor peggio, non è mai stata una priorità dell’Europa. La nazione ha assunto il ruolo di cortile di casa per l’UE, la quale ha provveduto ad attuare un esperimento sociale sullo Stato, introducendo il libero mercato in una realtà che più della Coca Cola necessitava di abitazioni, che più di McDonald’s chiedeva la ricostruzione di strade ed autostrade ancora inagibili dal 1995.
Le incresciose statistiche sui tassi d’emigrazione dei giovani bosniaci testimoniano una nazione che lentamente muore, che non riesce ad assicurare un futuro per i propri figli e che non è in grado di progettare un cambio generazionale. Gli stipendi bassi e la dilagante corruzione non sono che gli elementi più visibili di un iceberg che progressivamente sta affondando il futuro dei giovani bosniaci.
Secondo Mirhunisa Zukić, presidentessa dell’associazione Unione per un ritorno sostenibile in BiH sono più di 180.000 le persone che anno lasciato il paese negli ultimi 7 anni. In seguito al primo report sull’emigrazione datato 2017 la stessa Mirhunisa Zukić affermava che:
“I nostri dati, che ci rivelano la partenza di 151.000 persone, sono stati raccolti sul campo, presso le comunità locali. Volontari lo hanno fatto porta a porta. Anche le autorità locali hanno condiviso con noi i loro dati. Purtroppo, molte persone non informano le autorità della loro partenza, vanno all’estero tre o quattro mesi, poi ritornano un po’ e poi lasciano il paese per sempre. Noi seguiamo continuamente questi movimenti complessi. Quasi ad un quarto di secolo dopo la fine della guerra nulla cambia nel nostro paese: che si tratti dell’incertezza economica, della corruzione, delle tensioni politiche. I cittadini sono affaticati e stufi di promesse. Noi tentiamo, da parte nostra, di mostrare esempi positivi e di dire che è possibile vivere in Bosnia Erzegovina e restarci. Occorre sviluppare presso la popolazione una coscienza collettiva del problema, fornire spiegazioni. Ma l’ossessione del mantenere il potere accieca i nostri politici.”
La situazione bosniaca è in realtà uno spicchio dell’intera torta balcanica. Dalla Bulgaria alla Romania la maggior parte degli stati dell’Europa Sud-orientale percepiscono in maniera preponderante l’accentramento del lavoro e dei flussi economici dell’Europa centrale. Secondo l’economista Tim Judah, infatti, le proiezioni attuali prevedono che entro il 2050 la popolazione bulgara vedrà una riduzione significativa del 39% rispetto alla fine del comunismo, mentre quella della Romania del 30%. La Bosnia calerà del 29%, e la Serbia del 24%. La popolazione della Moldavia si è già ridotta di un terzo in trent’anni, mentre i tassi di fecondità sono ai minimi storici. Secondo uno studio statistico, invece, il 70% dei giovani serbi nutre il desiderio di emigrare. Le ragioni non sono unicamente connesse a questioni economiche, ma anche a una progressiva disillusione verso il futuro nazionale.
Le mete predilette dagli emigranti sono principalmente la Germani, la Francia, la Spagna e l’Italia. Questi stati accolgono ben volentieri i lavoratori stranieri, nonostante la retorica sovranista che influenza più i telegiornali che le dinamiche aziendali, in quanto sono portatori di mano d’opera a basso costo che indirettamente crea un ribasso generale nel salario nazionale.
Sicuramente è necessario fare un’attenta riflessione sulla direzione politica assunta dall’Europa nei riguardi delle nazioni ex socialiste. Sembra che con il passare del tempo si sia venuta a realizzare una situazione di sempre maggiore disparità tra le nazioni economicamente più sviluppate e le altre, creando così per le prime un serbatoio pressoché infinito di manovalanza a basso costo, e per le seconde un futuro sempre più tetro e di subalternità. Sorge spontanea la domanda: a chi è servita, dunque, la dissoluzione della Jugoslavia?