La Corte conferma il no ai domiciliari per una donna condannata a 30 anni. Decisiva l’abitazione inadeguata e l’alta pericolosità sociale.
Milano – La Suprema Corte ha confermato il diniego della detenzione domiciliare per una detenuta incinta e affetta da tumore al seno, condannata a trent’anni di reclusione per una lunga serie di furti. La donna, che si trova nell’Icam (Istituto a Custodia Attenuata per detenute Madri), aveva impugnato la decisione del tribunale di Sorveglianza di Milano che le aveva negato la possibilità di scontare la pena fuori dal carcere. Nel frattempo il bambino è nato prematuro.
Gli ermellini hanno individuato due elementi fondamentali alla base del rigetto. Il primo riguarda l’abitazione indicata dalla condannata per l’eventuale detenzione domiciliare: si tratta di “un immobile di costruzione abusiva, già oggetto di ordine di demolizione”, giudicato non idoneo ad accoglierla. Il secondo aspetto, ancora più rilevante, è “l’accertata estrema pericolosità della condannata“.
I giudici hanno sottolineato il rischio concreto che la donna possa ripetere i comportamenti criminali, evidenziando “il numero ininterrotto di reati commessi anche in gravidanza e pur essendo madre di altri figli minori”. Secondo la Corte, questo dimostra che i crimini sono stati perpetrati “in spregio alla tutela necessaria da assicurare ai nascituri e ai figli nati”.
La sentenza non è stata influenzata dal recente decreto Sicurezza, che ha modificato la normativa rendendo facoltativo, e non più automatico, il rinvio della pena per madri con figli di età inferiore a un anno. Come precisato dalla Cassazione, quel provvedimento non era ancora operativo nel 2023, quando la donna è stata condannata, e rappresenterebbe comunque una modifica peggiorativa applicabile solo per il futuro.
Per quanto concerne la patologia oncologica, i magistrati hanno ritenuto che “le cure chemioterapiche necessarie possono essere gestite per tre mesi” attraverso trasferimenti in ospedale “per il tempo necessario alla somministrazione della terapia”. Successivamente, hanno aggiunto, “l’eventuale assistenza può essere garantita adeguatamente dalla struttura sanitaria interna” all’istituto penitenziario.