Tra le crepe di un palazzo, il segreto che nessuno voleva vedere. La storia di Chicca e dei bambini “invisibili”.
Caivano – Il 28 aprile 2013, nel complesso residenziale noto come Parco Verde, a Caivano, un bambino di tre anni di nome Antonio (Nino) Giglio cade da una finestra. All’inizio si pensa a un tragico incidente ma si resta nel campo delle ipotesi, senza mai chiarire cosa sia realmente accaduto. La vicenda passa sottogamba, i notiziari nazionali sembrano quasi ignorarla. Passa poco più di un anno e, nello stesso edificio, si verifica un nuovo dramma: una bambina di sei anni precipita dall’ottavo piano. Il suo nome è Fortuna Loffredo, per tutti “Chicca”. A trovarla a terra è Salvatore Mucci, un residente dello stabile, che la trasporta d’urgenza in ospedale. Purtroppo per Fortuna non c’è nulla da fare: la piccola è già morta. L’autopsia però rivela qualcosa di sconvolgente: segni inequivocabili di abusi sessuali reiterati.
Cosa accade al civico 3?
La madre della piccola Fortuna, Domenica Guardato, è certa. Le sue parole suonano come una sentenza: «Me l’hanno fatta cadere di sotto». Ma chi? Un primo dettaglio inquietante è l’assenza di una delle scarpe della bambina, la destra, scomparsa nel nulla. I carabinieri avviano una serie di intercettazioni ambientali in tutto l’edificio ma queste vengono spesso manomesse. Il palazzo è sotto il controllo dello spaccio e le forze dell’ordine non sono affatto le benvenute. Nonostante due minori siano morti, nessuno sembra aver visto nulla. O, forse, tutti sanno ma tacciono.
Il Parco Verde rappresentava – e continua a rappresentare – una cattedrale di grigio sorta dalle rovine del terremoto, dove l’illegalità diffusa ha aperto le porte alla criminalità organizzata e all’analfabetismo sociale. Piccole vedette al servizio del narcotraffico, ingressi costantemente spalancati, voci che echeggiano tra i piani di un edificio: un palcoscenico ideale per la legge del mutismo. Chi osserva dall’esterno ne discute con raccapriccio; chi ci vive dentro rispetta il codice del silenzio. Il rumore sordo di “una piccola vita” precipitata non era riuscito a scalfire le barriere elastiche del condominio.

Fu necessaria l’analisi autoptica, nell’autunno del 2014, per documentare ufficialmente che Fortuna aveva subito violenze prolungate e che qualcuno l’aveva gettata mentre respirava ancora.
Le prime verità
Un’intercettazione rivela che una donna residente all’ottavo piano ha confessato al figlio: «La scarpa l’ho buttata io… non volevo che si sapesse niente». Il figlio è agli arresti domiciliari e si ipotizza che la madre voglia proteggerlo o evitare problemi con la polizia.
I bambini, però, sembrano sapere qualcosa. E gli adulti li zittiscono. Una nonna dice alla nipotina: «Se ti chiedono qualcosa, rispondi che non sai nulla. Mi raccomando, fai come ti dico». E poi aggiunge, parlando del “segreto”: «È per quello che continuano a farti domande, quegli scemi… non te li togli più di torno».

In quel palazzo al civico 3, i ruoli sembrano rovesciati. Le figure familiari che dovrebbero proteggere diventano complici del silenzio. Un’altra nonna, residente al settimo piano, afferma di essere stata presente sulle scale del pianerottolo prima della caduta della piccola Fortuna e dichiara – con assoluta certezza – che nessuno è salito all’ottavo piano. Dunque, secondo lei, Fortuna non sarebbe caduta da lassù. Ma un vicino la smentisce, sostenendo di non averla vista quella mattina.
L’orrore prende forma
Sei mesi dopo, proprio nel periodo natalizio, arrivano i primi arresti. Le indagini sulla morte della piccola fortuna Loffredo portano alla luce un altro caso terribile: una coppia viene accusata di aver abusato della figlia dodicenne. L’uomo è Salvatore Mucci, lo stesso che aveva soccorso la bambina, portandola in ospedale. Il civico 3 diventa un incubo.

Passa un altro anno e si aggiunge un ulteriore tassello a quel puzzle di omertà e silenzi: vengono arrestati Marianna Fabbozzi, madre del piccolo Antonio Giglio, e il suo compagno Raimondo Caputo, detto Titò, con precedenti per furti e altri reati. Sono accusati di aver abusato di una delle figlie di Marianna, amica intima di Chicca. Dopo essere state allontanate e affidate a una struttura protetta, le bambine iniziano a parlare. Disegni, confessioni, diari: emergono racconti raccapriccianti. Le dichiarazioni puntano verso un’unica direzione: Raimondo avrebbe violentato e poi ucciso Fortuna.
Il racconto di una bambina
Una delle figlie di Marianna Fabbozzi racconta a psicologi e magistrati quanto accaduto quel giorno. Era in casa della nonna, mentre sua madre era in cucina e lei stava pulendo per terra. Chicca arriva e le propone di giocare ma lei risponde che è impegnata. Poi Chicca si lamenta per le scarpe, dice che le fanno male, scende a cambiarle e risale. Quando le chiedono chi c’era con lei, risponde: «Mamma, Chicca, Raimondo».
La bambina racconta che Raimondo porta Chicca all’ultimo piano e che lei li segue. Alla domanda su cosa vede, risponde: «La stava toccando… erano distesi, lui sopra di lei». Dice anche che Chicca cercava di difendersi: «Gli dava calci». Poi racconta l’epilogo: «Lui la prese in braccio e la buttò giù». Sebbene la bambina dica di non aver visto la caduta, racconta di aver sentito le urla e di ricordare che Raimondo, nei giorni successivi, le ripeteva: «Sì, l’ho uccisa io Chicca».
Il padre di Fortuna
Raimondo Caputo si proclama innocente, affermando di non essere stato presente al momento della tragedia e di non aver mai abusato di nessuno. Al momento della custodia cautelare era già detenuto a Poggioreale per presunti abusi sulla figlia della compagna.
Pietro Loffredo, padre di Chicca, all’epoca della morte della figlia era in carcere per reati minori come contrabbando e vendita illegale di CD. «Non voglio un capro espiatorio tanto per chiudere il caso. Voglio la verità. Voglio sapere se chi ha fatto questo ha agito da solo, o se qualcuno l’ha aiutato. E perché ha ucciso mia figlia» aveva detto, quando le indagini si erano concentrate sul vicino di casa.
In quel condominio dove il silenzio protegge gli aguzzini, dove i legami familiari vengono traditi, Pietro ha scontato dieci anni per crimini che altrove avrebbero ricevuto sanzioni molto più leggere. Ma al Parco Verde le regole sembrano capovolte. Mentre il male si nutre del silenzio, l’omertà la fa da padrona.
La Giornata nazionale delle periferie urbane
L’eco del grido spezzato di Fortuna Loffredo risuona ancora oggi, a undici anni dalla sua morte. In quel tragico giorno non è morta solo Chicca: è morta anche la fiducia in una comunità che ha scelto il silenzio e la paura come compagne di vita. Oggi, per la prima volta in Italia, il 24 giugno diventa Giornata nazionale delle periferie urbane, istituita con la legge 170/2024 e approvata all’unanimità dalla Camera. Un tributo simbolico alla memoria di Fortuna ma anche un appello collettivo a non voltarsi più dall’altra parte.
Il dolore di una madre
Domenica Guardato, la madre di Chicca, oggi vive lontana da Caivano. Si è trasferita al Nord, cercando una nuova vita dopo la tragedia ma il dolore resta immutato. «Chicca l’ho voluta, l’ho desiderata, e me l’hanno ammazzata. Darei la vita per farla tornare», ha dichiarato a undici anni dalla morte. Nel gennaio 2024 ha dato alla luce una nuova figlia, Fatima. «Un dono di Dio, non una sostituzione. Chicca resterà sempre Chicca».
Nel ricordo straziante della figlia, Domenica denuncia una realtà in cui ancora poco o nulla è cambiato: «Nelle periferie si ha solo paura. Ragazzini con coltelli, pistole, degrado ovunque. Mio figlio ventenne deve sempre dirmi dove si trova. Viviamo con l’ansia».
Le periferie al centro: una legge per non dimenticare
Il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle periferie, l’onorevole Alessandro Battilocchio, ha voluto fortemente questa ricorrenza. «La morte di Fortuna deve servire per accendere i riflettori sulle emergenze nei territori dimenticati», ha dichiarato. La Commissione ha svolto 25 missioni in tutta Italia, documentando condizioni disumane in quartieri come la Ciambra di Gioia Tauro, dove 170 bambini vivono in baracche senza servizi igienici, tra rifiuti tossici e degrado estremo.

Ma c’è anche speranza. I bambini di Monte Tufello e Le Terrazze a Roma, durante una visita dei deputati, hanno disegnato i loro desideri: una piscina, una gelateria, una scuola sicura. «Il vostro impegno, il nostro futuro», hanno scritto. Parole semplici che racchiudono un bisogno profondo: sentirsi visti, ascoltati, protetti.
Educazione, cultura e riscatto
Sacri sono i luoghi dell’educazione e della cultura, ha detto Battilocchio, e per questo la Commissione ha promosso iniziative simboliche e concrete. Come il progetto “Storie di periferia”, con laboratori di lettura e scrittura per studenti delle aree marginali. O la decisione di tenere la premiazione del Premio Strega Giovani a Tor Bella Monaca e Caivano. Segnali forti, che vogliono trasformare simboli di degrado in luoghi di riscatto.
Nel centro “Don Pino Puglisi” a Roma, confiscato alla criminalità e oggi in via di riqualificazione, si celebra la Giornata con attività sportive e progetti per i giovani. Il programma “Talento e Tenacia – Crescere nella Legalità” è stato salvato grazie all’intervento della Commissione: un modello virtuoso di come lo Stato può e deve presidiare il territorio.
Un futuro ancora tutto da scrivere
L’istituzione della Giornata delle Periferie rappresenta un primo passo. Ma la battaglia non è finita. Le cicatrici lasciate dalla morte di Chicca sono ancora vive. I processi hanno stabilito responsabilità e condanne ma il contesto di omertà e degrado che ha reso possibile quell’orrore è tutt’altro che risolto.
Il 7 luglio 2017 Caputo ha ricevuto la condanna a vita; la convivente Marianna Fabozzi è stata punita con una decade di reclusione per aver mancato di difendere le proprie bambine. Verdetti confermati nel secondo grado (2018) e dalla Suprema Corte (2019).
Attualmente lui sconta la detenzione perpetua in un penitenziario di alta sicurezza, mentre lei rimane rinchiusa nell’istituto di Pozzuoli in attesa della conclusione del processo per la scomparsa di Antonio.

Nel tardo pomeriggio di oggi, presso il Parco Verde, una funzione religiosa e il rilascio di palloncini colorati tenteranno nuovamente di attraversare quell’orizzonte di terrazze anguste dove i più piccoli raramente sono piccoli.
Il rione, nel frattempo, sopravvive oscillando tra annunci di rinnovamento e la concretezza di lavori che procedono a intermittenza. Sui gradini di quell’edificio si respira ancora il profumo dell’innocenza violata.
Il civico 3 del Parco Verde resta il simbolo di un fallimento collettivo. Ma oggi può diventare anche un punto di partenza. Perché la storia di Fortuna Loffredo non è solo un drammatico fatto di cronaca: è un monito. Un richiamo alla coscienza di un Paese che ha il dovere di proteggere i più fragili, soprattutto dove lo Stato è stato per troppo tempo assente. Il pensiero va a Fortuna e al piccolo Nino ma anche a tutti quei bambini invisibili, che non hanno trovato nessuno che li ascoltasse.