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Daniele Potenzoni: dieci anni di mistero nel cuore di Roma

Un viaggio che si trasforma nel peggiore degli incubi: quando la fiducia nelle istituzioni si infrange sui binari della metropolitana.

Roma – Il 10 giugno 2015 doveva essere una giornata speciale per Daniele Potenzoni. Il trentaseienne di Pantigliate, nell’hinterland milanese, si era svegliato quella mattina in un bed & breakfast vicino alla stazione Termini, dove aveva trascorso la notte insieme agli altri ospiti del centro diurno della ASL di Melegnano (Milano). Era il secondo giorno di un viaggio che rappresentava molto più di una semplice gita: per un giovane uomo reso fragile dall’autismo, quella trasferta romana significava un’occasione di serenità, un momento di normalità in una vita segnata dalle difficoltà.

Daniele aveva i suoi rituali di sicurezza: le sigarette che cercava freneticamente in tasca e fumava in continuazione quando si sentiva disorientato, il tic di grattarsi il naso quando era nervoso, quella sua andatura ciondolante che tradiva la sua fragilità interiore. Era un “giovanotto fragile reso ancor più disorientato dallo spettro autistico”, come lo descriverà poi la cronaca, ma era anche un figlio amato e un fratello maggiore adorato.

L’obiettivo di quella giornata era assistere all’udienza di Papa Francesco in Vaticano. Per una famiglia di persone semplici come i Potenzoni, vedere il Papa dal vivo rappresentava un sogno. Francesco Potenzoni, operaio in pensione, e sua moglie Rita avevano affidato il loro figlio più vulnerabile agli esperti, certi che fosse in buone mani. “L’avevo messo nelle mani di persone che consideravo esperte per regalargli un po’ di serenità”, dirà poi papà Franco con una voce che ancora oggi trema di indignazione e dolore.

Francesco Potenzoni

Invece, quella mattina alla stazione Termini, in pochi secondi drammatici scanditi dal caos della metropolitana romana, Daniele è scomparso nel nulla. Non si è semplicemente perso: è letteralmente evaporato, come se la città eterna lo avesse inghiottito nelle sue viscere sotterranee. Dieci anni dopo, il suo caso rimane uno dei misteri più dolorosi della capitale, una ferita aperta che il padre Francesco non smette di denunciare con parole che suonano come un j’accuse verso le istituzioni e verso una società che fa differenze anche nel dolore.

La scomparsa nella metropolitana: anatomia di una tragedia annunciata

La ricostruzione di quei momenti fatali ha dell’incredibile e dell’assurdo, come una sequenza cinematografica che nessun regista oserebbe mai scrivere perché troppo crudele nella sua banalità. Il gruppo di una dozzina di pazienti, accompagnato da due infermieri che avrebbero dovuto garantire la loro sicurezza, scende le scale mobili alla stazione Termini per prendere la metro A direzione Ottaviano-Vaticano.

La metro di Roma

L’atmosfera è già tesa: la banchina è più affollata del solito perché si è appena concluso uno dei tanti scioperi dei mezzi di trasporto romani e la folla si accalca in attesa del primo treno disponibile. Daniele è visibilmente frastornato, ciondolante come sempre quando si trova in situazioni che non riesce a decifrare. Le sue mani frugano nervosamente nelle tasche alla ricerca delle sigarette, la sua ancora di salvezza nei momenti di confusione.

Quando finalmente arriva il convoglio della metropolitana, la situazione precipita in pochi, drammatici secondi. I vagoni sono letteralmente stracolmi di passeggeri, una massa umana compressa che si muove come un organismo unico. È in questo momento che si consuma quello che papà Francesco definirà per sempre “il tradimento della fiducia”. Uno degli infermieri grida: “Forza, entrate!” spingendo il gruppo verso le porte aperte del treno. Ma un attimo dopo, rendendosi conto della situazione, fa improvvisamente dietrofront: “No, è troppo pieno! Prendiamo il prossimo!”

È in questo doppio ordine contraddittorio, in questa frazione di secondo di caos comunicativo, che il destino di Daniele Potenzoni si compie. Mentre tutti gli altri pazienti del gruppo fanno un saltello indietro obbedendo al secondo comando, Daniele – già confuso dalla folla e dal rumore – entra nella calca dei passeggeri stipati come sardine. Le porte automatiche si chiudono con un sibilo metallico che suona come una condanna a morte. Il treno riparte verso l’ignoto, portando con sé un uomo che non sa orientarsi nel mondo, che non sa chiedere aiuto, che non conosce Roma e che ora si ritrova completamente solo in una città di tre milioni di abitanti.

Le ricerche di Daniele Potenzoni

È facile immaginare Daniele in quei primi momenti: gli occhi sgranati dalla paura, il batticuore che martella nel petto, le mani che si grattano compulsivamente il naso in quel tic ricorrente che tradisce il suo stato di agitazione estrema. È l’ultima immagine che chiunque avrà mai di Daniele.

Un padre che non si arrende: la battaglia solitaria di Francesco Potenzoni

“L’avevo messo nelle mani di persone che consideravo esperte per regalargli un po’ di serenità e non me l’hanno portato indietro” racconta con voce ancora tremante Francesco Potenzoni, operaio in pensione che gli amici chiamano semplicemente Franco. È un uomo semplice, con le mani callose di chi ha lavorato una vita, padre di tre figli maschi oltre a Daniele, sempre sostenuto dall’amata moglie Rita che non lo ha mai lasciato solo in questa battaglia contro i mulini a vento della burocrazia e dell’indifferenza, come un moderno Don Chisciotte.

Quel 10 giugno 2015, quando nel pomeriggio squilla il telefono di casa e dall’altro capo della cornetta arriva la notizia che nessun genitore vorrebbe mai sentire, papà Franco crolla. “Vi siete persi mio figlio? Nooo! Lui è come un bambino!” Le parole gli escono strozzate dalla gola, mentre il mondo intero sembra crollare intorno a lui.

Francesco Potenzoni con Pietro Orlandi.

Ma è quello che è successo dopo, nei giorni, nei mesi, negli anni seguenti, a trasformare il dolore in rabbia, la disperazione in denuncia: “Mi sono fidato e ho sbagliato! Poi è successo anche di peggio. In dieci anni Daniele non è mai stato cercato sul serio e io so perché: non è il figlio di persone importanti, di ministri ma di gente semplice come noi. Tutto qui. Lo Stato ci ha lasciati soli, è una vergogna!”

Queste parole, pronunciate con l’amarezza di chi ha visto sfumare ogni speranza, racchiudono un j’accuse che va oltre il caso specifico e tocca le contraddizioni di un sistema che sembra fare differenze persino nel dolore. Francesco Potenzoni non è un rivoluzionario, non è un contestatore: è semplicemente un padre che pretende giustizia per suo figlio e che ha trasformato il proprio strazio in una denuncia civile che interpella la coscienza di tutti.

Ogni mattina, da dieci anni, papà Franco si sveglia con la stessa domanda: “Dove sei, Daniele?” E ogni sera si addormenta con la stessa promessa: “Domani continuerò a cercarti”. È una fedeltà che ha dell’eroico, una determinazione che sfida il tempo e l’oblio, alimentata solo dall’amore di un padre che non accetta l’idea che suo figlio sia diventato semplicemente una statistica nei faldoni polverosi delle “missing people”.

Le ricerche e la moltiplicazione dei sosia: quando Roma si mobilita invano

Nei primi giorni e settimane dopo la scomparsa, Roma si trasforma in un gigantesco teatro dell’assurdo. Le ricerche sono frenetiche e capillari: dai tunnel sotterranei della metropolitana ai parchi della città, dagli ospedali ai centri per senzatetto, dai campi nomadi ai ricoveri di fortuna. I vigili urbani, la polizia, i carabinieri, i volontari: tutti sembrano mobilitati per ritrovare il “giovanotto con la faccia da pugile” che ha commosso l’Italia.

Ma è l’effetto mediatico a generare il fenomeno più straniante: la moltiplicazione dei sosia. Appena la foto di Daniele inizia a circolare su giornali, televisioni e social network, ai centralini delle forze dell’ordine iniziano ad arrivare centinaia di segnalazioni. “L’ho visto sul tram, è lui!” “No, vagabondava nella zona di Boccea!” “Chiedeva soldi al semaforo!” “È in un video diventato virale sul web!”

Una delle segnalazioni arrivate alle forze dell’ordine

Per settimane, non c’è romano che non cerchi nel volto di un clochard sul marciapiede o del vicino sull’autobus i lineamenti di Daniele. Ogni barbone, ogni persona dall’aspetto trasandato, ogni individuo diventa potenzialmente “lui”. Le segnalazioni si moltiplicano in modo esponenziale, alimentando speranze che si rivelano sistematicamente vane.

Una delle più clamorose false piste è quella di un video che inizia a circolare sul web, in cui un uomo dall’aspetto simile a Daniele sembra chiedere l’elemosina in strada. Per giorni, la famiglia Potenzoni vive nell’illusione che possa essere davvero lui, finché non si scopre che si tratta di un cittadino russo che vive regolarmente in Italia.

Le teorie si susseguono, sempre più fantasiose e drammatiche: Daniele sedato e costretto a chiedere l’elemosina in un’altra città italiana; Daniele rapito dai trafficanti di organi; Daniele abusato sessualmente; Daniele irretito e usato come “manovalanza” in loschi traffici. Ma sono tutte congetture senza fondamento, castelli di carta costruiti sulla disperazione e sull’immaginazione. Le certezze rimangono a quota zero.

Anche personalità di spicco si mobilitarono. Francesco Totti lanciò un appello letto allo stadio Olimpico prima di Roma-Milan: “Daniele, un ragazzo schizofrenico con tratti di autismo ma non aggressivo, si è perso a Roma. Non sa chiedere aiuto, cibo o sostegno. Se lo incontrate per strada, chiamate subito le forze dell’ordine”.

L’appello di Totti

Il commissario straordinario Francesco Paolo Tronca fece passare al setaccio l’intera rete metropolitana di notte, a servizio fermo, cercando Daniele in ogni cunicolo e vano di servizio. Tutto inutile.

Una famiglia spezzata

Il dolore ha attraversato tutta la famiglia Potenzoni. Luca, il fratello minore, ha trasformato il suo strazio in musica, scrivendo una canzone rap nelle notti insonni: “Milano-Roma / un treno che viaggia / nella malinconia / Nei pensieri sono sempre là / a 7 mesi fa / dove è iniziata la follia…”

A ogni compleanno di Daniele, papà Franco gli fa gli auguri, sperando che da qualche parte possa sentirlo. Quest’anno Daniele avrebbe compiuto 46 anni.

L’amarezza della giustizia

Il procedimento giudiziario con l’accusa di abbandono di incapace a carico di uno dei due infermieri si è concluso con l’assoluzione in tutti i gradi di giudizio. Per la giustizia italiana, Daniele si è perso, non è stato perduto. Una distinzione che suona come una beffa per chi cerca ancora risposte.

Un appello che non si spegne

Nella lettera-appello scritta in occasione del decimo anniversario della scomparsa, papà Francesco ha messo nero su bianco tutto il suo dolore: “Ciao caro figlio mio, spero con tutto il cuore che tu stia bene. Sono passati dieci lunghi anni da quel maledetto 10 giugno, da quella gita per andare a vedere il Papa. Ti aspettiamo tutti, io, la mamma, i tuoi fratelli e la tua piccola nipotina.”

E poi l’accusa più dura: “Ti cercano in tanti, volontari e persone comuni, mentre io mi sento abbandonato dallo Stato, perché non sei figlio di persone importanti, ma di persone normali.”

Un mistero che interpella tutti

La storia di Daniele Potenzoni si inserisce nel lungo elenco dei misteri irrisolti di Roma, da Emanuela Orlandi agli altri cold case che segnano la cronaca nera della capitale. Ma forse proprio per questo il suo caso è ancora più doloroso: non ci sono trame internazionali o segreti di Stato, solo un ragazzo fragile inghiottito dal caos di una grande città.

Dieci anni dopo, mentre Roma continua a vivere e pulsare, da qualche parte c’è forse ancora un uomo di 46 anni che non sa tornare a casa. O forse no. Ma fino a quando non si saprà la verità, il grido di dolore di papà Francesco continuerà a risuonare come un monito per tutti noi: “Non pensare che ti abbiamo dimenticato, ti cercheremo sempre, con l’aiuto del Signore…”

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