Dalla Chiesa: il generale solo, a 42 anni dalla sua morte restano zone d’ombra 

Mandato a Palermo da prefetto dopo aver sconfitto il terrorismo, non ottenne mai i poteri speciali che chiedeva per contrastare Cosa nostra.

Palermo – Il generale Dalla Chiesa fu l’uomo di punta utilizzato nella lotta contro il terrorismo. Un uomo deciso e spigoloso, mai promo ai compromessi, che ottenne risultati straordinari. Dopo l’omicidio del deputato comunista Pio La Torre e l’approvazione della legge sull’associazione a delinquere di stampo mafioso, l’esecutivo lo nominò prefetto di Palermo con pieni poteri. Ma il 3 settembre del 1982 la mafia pose fine alla sua vita. A 42 anni dalla sua uccisione la politica e le istituzioni ricordano il suo ruolo nella lotta contro la mafia e sui suoi 100 giorni a Palermo.

La sera di quel settembre infuocato il generale dei carabinieri venne assassinato con raffiche di kalashnikov assieme alla giovane moglie, Emanuela Setti Carraro, e al suo agente di scorta, Domenico Russo. Era arrivato a Palermo da appena cento giorni (come ricorda emblematicamente il film di Giuseppe Ferrara del 1984), quando la mafia rispose in maniera inequivocabile allo Stato che cercava di combatterla. Una strage, quella di via Isidoro Carini, che sarà ricordata oggi anche alla presenza del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. La premier Giorgia Meloni ricorda il suo coraggio e il suo sacrificio.

Il generale e la moglie Emanuela Setti Carraro

Un sacrificio, sottolinea la presidente del Consiglio, che “ci ricorda l’importanza di non abbassare mai la guardia nella lotta contro la criminalità organizzata e di difendere con fermezza i valori di legalità e giustizia”. “Il coraggio e la dedizione del generale dalla Chiesa, che ha combattuto senza sosta contro il terrorismo e la mafia, sono per noi – riprende la presidente del Consiglio – un esempio e una guida. E’ nostro dovere onorare la sua memoria continuando con determinazione il suo impegno. L’Italia non dimentica”. 

Carlo Alberto Dalla Chiesa incarnò la speranza dei siciliani onesti, ma morì ucciso da Cosa nostra in un contesto di isolamento istituzionale. Era già stato in Sicilia come ufficiale dei carabinieri dal 1949 ai primi anni ’50 e successivamente dal 1966 al 1973. Da generale aveva coordinato la lotta al terrorismo ed era stato nominato prefetto di Palermo dopo l’omicidio di Pio La Torre e Rosario Di Salvo, per fermare la mattanza mafiosa. Aveva chiesto più volte, ma senza ottenerli, poteri effettivi di coordinamento della lotta a Cosa
nostra. Furono cento giorni di impegno determinato, oltre ogni ostacolo, e di solitudine. Fino al tragico epilogo.

La strage in via Carini

Nell’ultima intervista a Giorgio Bocca, il prefetto spiegò che “un uomo viene colpito quando viene lasciato solo”. E il pubblico ministero Nico Gozzo nella sua requisitoria parlò di “un delitto maturato in un clima di solitudine: Carlo Alberto Dalla Chiesa fu catapultato in terra di Sicilia nelle condizioni meno idonee per apparire l’espressione di una effettiva e corale volontà dello Stato di porre fine al fenomeno mafioso”.
Inevitabili, secondo il magistrato, gli effetti di questo ‘abbandono’: “Cosa nostra ritenne di poterlo colpire impunemente perché impersonava soltanto se stesso e non già, come avrebbe dovuto essere, l’autorità dello Stato”. Gli uomini della cupola erano già stati condannati nel Maxiprocesso nato proprio da un rapporto di Dalla Chiesa contro 162 esponenti di Cosa nostra e consolidato, nel suo impianto accusatorio, dal contributo di alcuni grandi pentiti come Tommaso Buscetta, Totuccio Contorno e Francesco Marino Mannoia.

Il superprefetto, nato a Saluzzo (Cuneo) il 27 settembre del 1920, ritornò a Palermo con procedura d’urgenza dopo avere affrontato la malavita del nord, la mafia siciliana e le brigate rosse. Era la sera del 30 aprile
del 1982, poco dopo l’uccisione del segretario siciliano del Pci, Pio La Torre, terzo uomo politico assassinato nel giro di qualche mese dopo Piersanti Mattarella, democristiano, presidente della Regione siciliana, e Michele Reina, segretario della Dc palermitana. Ma durante i suoi cento giorni a Palermo non ebbe quei poteri speciali più volte inutilmente richiesti. Quel venerdì di 42 anni fa sembrò davvero che fosse per sempre “morta la speranza dei palermitani onesti”, come scrisse un cittadino del capoluogo siciliano su un lenzuolo nel luogo della strage.

Il generale e le immagini dell’agguato

Durante i funerali, il cardinale Salvatore Pappalardo tuonò dall’altare usando le parole di Tito Livio: “Dum Romae consulitur… Saguntum espugnatur. Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata e questa volta non è Sagunto, ma Palermo! Povera Palermo nostra”. I mandanti e alcuni esecutori sono stati condannati all’ergastolo. Ma, come disse l’ex procuratore antimafia Pietro Grasso, “per gli omicidi eccellenti bisogna pensare a mandanti eccellenti”. La loro ricerca sembra non avere fatto significativi passi avanti e l’unica verità giudiziaria è compendiata nelle sentenze di condanna per due sicari e per i vertici della cupola tra cui Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco e Pippo Calò.

“Si può senz’altro convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra – affermò la sentenza con cui nel 2002 la corte d’Assise inflisse l’ergastolo ai killer Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo e Nino Madonia – sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale”. Molti ritengono, e Leonardo Sciascia non lo smentì, che la figura del capitano Bellodi de “Il giorno della civetta”, il libro del grande scrittore siciliano interpretato sullo schermo da Franco Nero, fosse ispirata proprio a Dalla Chiesa, che Sciascia conobbe da giovane ufficiale sull’isola.

Leonardo Sciascia e il racconto ne “Il giorno della civetta”

E c’è una frase pronunciata da Sciascia nel libro, che racchiude la storia del generale e delle tante vittime di mafia: “La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità”. Emblematiche anche le parole della figlia, Rita Dalla Chiesa, oggi parlamentare di Forza Italia: Mio padre mi aveva detto la prima corona che arriva al mio funerale è del mandante, la corona che arrivò era della Regione Sicilia. La prima cosa che feci – a quel punto – fu quella di prendere la corona sulla tomba e buttarla fuori”.

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