Un ragazzo di 20 anni non mangia dal 14 febbraio e ha perso oltre 15 kg. La sua protesta silenziosa e le urla di disperazione dalle carceri italiane.
Sassari – C’è una storia drammatica che arriva dal carcere di Bancali che attraversa le mura della detenzione. Un ragazzo di appena 20 anni, da oltre un mese in sciopero della fame. Non mangia dal 14 febbraio e ha perso oltre 15 kg. La sua è una protesta silenziosa per denunciare una situazione invivibile, con spazi angusti e poca dignità. “La sua condizione fisica e mentale non è trascurabile. È costantemente monitorato ma non intende alimentarsi”. E’ una delle situazioni di fronte alle quali si è trovata Irene Testa, garante delle persone private della libertà della Sardegna che ha visitato il penitenziario sassarese accompagnata dalla garante comunale Anna Cherchi.
“Nessun racconto può rendere l’idea, ma è certamente mio dovere provarci – spiega Testa – È mio dovere denunciare che in una sezione con 16 celle sono presenti 55 detenuti, la maggior parte stipati in quattro per cella. I soffitti sono umidi, le pareti scrostate, le celle in condizioni igieniche precarie. Inoltre, nella maggior parte delle celle sono presenti pochissimi stipetti per riporre gli oggetti personali”. “Si riducono gli arredamenti per fare spazio e rientrare nella metratura prevista per legge, così da infilarci quattro letti? I detenuti, per non buttare i vestiti per terra, costruiscono piccoli arredi con il cartone”.
In alcune celle “non ci sono i termosifoni, mancano alcune porte nei bagni, per cui chi vive in quegli spazi è costretto a subire odori e umiliazioni – aggiunge – Quattro ore di visita in una sola sezione. Urla continue. Detenuti psichiatrici che parlano da soli, che gridano o che gettano acqua, cibo e detersivo nei corridoi. Tanti i detenuti stranieri che hanno chiesto di poter avere vestiti e scarpe”. Il grido di dolore che si leva dai penitenziari è ormai assordante. E le proteste si moltiplicano. A settembre scorso una lettera firmata da 57 detenute del carcere di Torino, raccontava di uno sciopero della fame a staffetta e a oltranza. La protesta era guidata da Paola, Marina e dalle altre firmatarie che avevano messo il loro nome e cognome sul documento.
La carica delle donne, che in una lettera inviata al Capo dello Stato e alla politica denunciavano la loro condizione: celle stracolme, disperazione, solitudine e suicidi. Il problema principale, secondo le detenute, era, ed è ancora oggi, il sovraffollamento. Le donne del padiglione femminile del carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino parlavano di “magazzini di corpi” che “stanno per esplodere”. Le detenute si rivolgevano ai parlamentari, ai ministri, e richiamavano la Costituzione e i diritti fondamentali, chiedendo di ripristinare “il senso utile della pena”. Avevano anche lanciato un appello al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, affinché convincesse il Governo a ridurre il numero dei reclusi con soluzioni logiche e umane. “L’unico crimine che vediamo è l’indifferenza”.
Ecco che Manuela, Fabiola, Tessa, Elisa, Stefania, Corina, Sabrina, Roxana, e Angela concludevano il loro appello con la speranza che comitati e politici potessero visitare il carcere per “vedere con i propri occhi” la situazione critica. “Non c’è più tempo, né spazio”. E ancora prima delle detenute torinesi, a maggio, con una lettera resa pubblica da Nessuno tocchi Caino, un recluso, Giovanni Granieri, aveva comunicato uno sciopero nazionale ad oltranza nelle carceri italiane.
“Sono Giovanni Granieri, detenuto presso il Carcere di Rebibbia Nuovo Complesso. Vi scrivo per informarvi che ci sarà uno sciopero nazionale ad oltranza nelle carceri italiane. I detenuti non acquisteranno più la spesa fino a data da destinarsi. Questo sciopero è un atto di estrema necessità per protestare contro le condizioni disumane in cui noi detenuti siamo costretti a vivere. Le condizioni delle carceri, già difficili, sono diventate ormai insostenibili e non mostrano alcun segno di miglioramento”.