A trent’anni dalla sua morte, non è stata scritta alcuna verità giudiziaria e il suo sacrificio è finito nell’oblio istituzionale.
Somma Vesuviana – Il 19 dicembre 1995, in una radura isolata della Valle dell’Inferno, tra il Monte Somma e il Vesuvio, veniva trovato il corpo senza vita di Angelo Prisco, maresciallo della Guardia di Finanza di 27 anni. Ucciso con una rosa di pallini sparati a distanza ravvicinata, il giovane finanziere era impegnato in un’attività che gli era costata minacce e ostilità: il contrasto al bracconaggio nel neonato Parco Nazionale del Vesuvio.
Angelo Prisco era originario di San Giuseppe Vesuviano, cresciuto in un’epoca in cui la criminalità organizzata dettava legge in quei territori. Aveva scelto di indossare una divisa credendo nella possibilità di fare rispettare le regole, di costruire uno spazio dove legalità non fosse una parola vuota. Il Parco Nazionale del Vesuvio, istituito da poco, rappresentava per molti quella speranza: un luogo dove finalmente avrebbe prevalso il rispetto della natura e delle norme.
Ma Angelo aveva sottovalutato quanto quella scelta avrebbe infastidito chi considerava quei boschi un proprio feudo personale. Il finanziere aveva più volte denunciato cacciatori di frodo, anche il giorno stesso in cui venne ucciso. Non si limitava a fare il suo dovere in modo burocratico: credeva davvero che fosse possibile cambiare le cose.
Inizialmente le indagini si concentrarono su due bracconieri, fermati con l’accusa di essere gli autori materiali dell’omicidio. Sembrava la pista più logica: un finanziere che contrastava attivamente la caccia illegale, ucciso in un’area impervia del parco con un’arma da caccia. Eppure, dopo diversi gradi di giudizio, i due furono prosciolti.
A distanza di trent’anni, non esiste ancora una verità giudiziaria sulla morte di Angelo Prisco. Il caso rimane irrisolto, sospeso in un limbo che permette a molti di voltare lo sguardo altrove.
Ciò che stupisce maggiormente è il silenzio calato attorno alla figura di Angelo Prisco. Non è stato riconosciuto ufficialmente come vittima innocente delle mafie, poiché manca una sentenza definitiva che lo certifichi. Un paradosso burocratico che ignora una realtà evidente: quel ragazzo è morto perché ha sfidato un sistema di potere radicato, perché ha osato mettere in discussione la cultura della prevaricazione.
Il suo sacrificio non ha generato mobilitazioni, non ha ispirato intitolazioni significative, non è diventato simbolo di una battaglia collettiva. Anzi, in molti lo hanno criticato per essere salito da solo in montagna quel giorno, per aver “esagerato” nel suo zelo. Come se credere nella legalità e rischiare la vita per farla rispettare fosse un eccesso, un errore di gioventù da perdonare con l’indifferenza.
Nel 2011, sedici anni dopo la sua morte, il Comune di San Giuseppe Vesuviano ha organizzato una fiaccolata in suo ricordo. Uno spiazzo nella Valle dell’Inferno porta oggi il suo nome, un piccolo segno in quel territorio che gli è costato la vita. Ma sono gesti isolati, che non hanno innescato una riflessione più ampia sul significato della sua morte e sulla responsabilità collettiva nel dimenticarla.
Forse il vero problema di Angelo Prisco è che la sua storia costringe a uno sguardo scomodo su certi territori. Ricordarlo significa ammettere che esistono zone dove la legge fatica a imporsi, dove chi prova a farla rispettare viene eliminato, dove l’omertà protegge ancora oggi chi ha sparato a quel ragazzo di 27 anni.
Significa riconoscere che il familismo, l’appartenenza a cerchie ristrette che si proteggono reciprocamente, è più forte del senso civico. Significa interrogarsi su quanto sia radicata una mentalità che considera i diritti universali ma i doveri discutibili, che vede nelle regole un’imposizione da aggirare piuttosto che un patto sociale da rispettare.
Oggi Angelo Prisco avrebbe 57 anni. Potrebbe essere un comandante, un padre di famiglia, un testimone di come il Vesuvio sia cambiato in questi tre decenni. Invece è un nome che quasi nessuno ricorda, un finanziere morto in servizio che non ha avuto l’onore che spetterebbe a ogni uomo in divisa caduto nel compimento del proprio dovere.
La sua vera colpa è stata quella di essere libero, di aver messo in luce un sistema di complicità che preferiva restare nascosto. Per questo è stato punito due volte: con la morte e con l’oblio. Trent’anni sono troppi perché una comunità continui a voltarsi dall’altra parte. La memoria di Angelo Prisco merita di uscire dal dolore privato della famiglia per diventare patrimonio collettivo, esempio di un coraggio che questa terra dovrebbe celebrare invece di nascondere.