L’omicidio di Ismaele Lulli: quando la gelosia diventa barbarie

Una storia di ossessione, manipolazione e complicità che ha spezzato una giovane vita.

Pesaro e Urbino – Nel cuore dell’estate del 2015, le colline marchigiane sono state testimoni di uno degli omicidi più brutali della cronaca nera italiana recente. Protagonista involontario della vicenda è stato Ismaele Lulli, uno studente diciassettenne la cui unica colpa è stata quella di fidarsi di un messaggio apparentemente innocente. Quella fiducia gli è costata la vita in un modo che ancora oggi fa rabbrividire per la sua crudeltà.

Il 19 luglio 2015, Ismaele ha ricevuto sul suo cellulare una proposta di incontro che sembrava provenire da una conoscente, Ambera. Il tono era leggero, quasi banale: un appuntamento alla stazione delle corriere nel primo pomeriggio. Nulla lasciava presagire l’orrore che si sarebbe consumato nelle ore successive.

Il giovane non sapeva che quel messaggio era stato scritto sotto coercizione, o forse con la complicità della stessa mittente. Non immaginava che dietro quelle parole si nascondesse la rabbia cieca di Igli Meta, il fidanzato ventenne di Ambera, consumato da una gelosia che aveva superato ogni limite del razionale.

All’appuntamento, Ismaele ha trovato ad attenderlo non la ragazza, ma due giovani dal volto cupo: Igli e il suo amico Marjo Mema. Entrambi albanesi, entrambi determinati a portare a termine un piano che avrebbe trasformato una domenica d’estate in un giorno di lutto.

Ismaele

Per comprendere cosa è accaduto quel giorno è necessario guardare indietro, ai giorni precedenti. Igli Meta non era semplicemente geloso: era consumato da un bisogno patologico di controllo. La relazione tra Ismaele e Ambera, reale o presunta che fosse, ha innescato in lui una spirale di pensieri ossessivi.

Le ore prima del sequestro sono state segnate da minacce esplicite. Una fotografia mostrava il giovane disteso sul letto con in mano un coltello che aveva ricevuto in dono. L’immagine, inviata ad Ambera, era accompagnata da parole che non lasciavano spazio a interpretazioni: voleva sapere tutto, ogni dettaglio dell’eventuale tradimento, e avrebbe usato la violenza per ottenerlo.

Non si trattava solo di vendicarsi: c’era un elemento voyeuristico, quasi sadico, nel voler ricostruire ogni momento di quello che considerava un affronto personale.

Le campagne attorno a Sant’Angelo in Vado, in provincia di Pesaro e Urbino, offrono paesaggi di rara bellezza. Colline ondulate, cipressi che svettano verso il cielo, chiesette abbandonate che raccontano secoli di storia. È difficile immaginare che proprio in uno di questi luoghi idilliaci si sia consumato un crimine così efferato.

La scelta del luogo non è stata casuale. L’isolamento garantiva l’assenza di testimoni, il silenzio delle campagne avrebbe soffocato ogni grido. Vicino a una chiesa sconsacrata, dominata da una grande croce di cemento, si è consumato quello che può essere definito soltanto come un atto di tortura premeditata.

Ismaele è stato immobilizzato, legato alla croce come in una macabra parodia della crocifissione. Le percosse sono state il preludio a un interrogatorio condotto con metodi che ricordano i peggiori crimini dell’epoca medievale. Il diciassettenne è stato costretto a rispondere a domande sempre più invadenti, sempre più violente, mentre la rabbia dei suoi aguzzini cresceva invece di placarsi.

Quando Igli ha estratto il coltello, il destino di Ismaele era segnato. Le coltellate sono state multiple, mirate, inferte con una precisione che tradiva non un raptus ma un’intenzione lucida. La gola del ragazzo è stata recisa in più punti.

Ciò che distingue questo crimine da molti altri non è solo la brutalità dell’esecuzione, ma il comportamento dei responsabili nelle ore successive. Anziché fuggire presi dal panico o dal rimorso, i due giovani hanno messo in atto un piano per depistare le indagini.

Il cellulare di Ismaele è diventato uno strumento di inganno postumo. I messaggi inviati ai suoi familiari e amici hanno creato un’illusione: il ragazzo non era morto, si era semplicemente allontanato di sua spontanea volontà. “Sono partito, non venitemi a cercare”, parole che avrebbero dovuto far guadagnare tempo prezioso agli assassini, mentre il corpo della vittima giaceva ancora legato a quella croce, sotto il sole estivo.

Quando il caso è arrivato in Tribunale, è emerso un quadro ancora più complesso. Igli Meta, davanti ai giudici, ha tentato di minimizzare la propria responsabilità con parole che suonano beffarde alla luce dei fatti. Ha ammesso di aver colpito, ma ha cercato di scaricare sul complice la responsabilità del colpo mortale. Ha parlato di “due coltellate”, come se si trattasse di un gesto quasi innocuo, trascurando di menzionare la sistematicità e la ferocia dell’aggressione.

Marjo Mema, dal canto suo, si è trovato invischiato in un crimine che forse inizialmente non aveva immaginato così estremo, ma la sua presenza e la sua partecipazione attiva lo hanno reso ugualmente colpevole agli occhi della giustizia.

La Corte d’Assise d’Appello di Ancona ha dovuto districarsi tra versioni contrastanti, tentativi di minimizzazione e prove forensi. La sentenza finale ha riconosciuto la gravità assoluta del crimine: ergastolo per entrambi. Pur escludendo la premeditazione in senso stretto, i giudici hanno riconosciuto le aggravanti della crudeltà e delle sevizie, elementi che hanno trasformato un delitto già grave in qualcosa di ancora più ripugnante.

Ambera rappresenta forse l’elemento più inquietante di tutta la vicenda. Inizialmente trattata come una testimone, successivamente è stata incriminata per concorso anomalo in omicidio, ricevendo una condanna di cinque anni e tre mesi che molti hanno considerato insufficiente.

Ma ciò che davvero sconvolge sono le sue dichiarazioni pubbliche dopo l’omicidio. Mentre un ragazzo innocente giaceva morto, mentre una famiglia piangeva un figlio strappato alla vita nel modo più atroce, Ambera ha trovato il modo di giustificare l’assassino. Ha descritto Igli come un “ragazzo dolce”, vittima della propria gelosia, come se questo potesse in qualche modo attenuare l’enormità di ciò che aveva fatto.

Il tentativo di fuga del 2024, a nove anni dai fatti, dimostra che Ambera Saliji non ha mai davvero accettato la propria responsabilità. L’arresto mentre cercava di raggiungere la Macedonia ha chiuso definitivamente questa possibilità di sottrarsi alla giustizia. Ambera è stata condannata a cinque anni e tre mesi di reclusione per concorso anomalo in omicidio volontario aggravato .