Uno studio dell’Università di Siena conferma la correlazione tra infanzia disagiata e talento artistico. Ma fino a che punto?
Le difficoltà aguzzano l’ingegno, recita un motto popolare. Nel senso che quando ci si trova davanti ad un problema complicato e, all’apparenza, insormontabile, il cervello mette in campo tutti i suoi arnesi per trovare una soluzione. Questo nei casi in cui la necessità porta a risolvere una situazione che altrimenti non si sarebbe stati in grado di risolvere. Ora pare che a confermare questo assunto ci sia l’avallo della Scienza.
A tal riguardo, il dipartimento di pediatria dell’Università di Siena ha condotto uno studio sul rapporto tra genio artistico e infanzia difficile. La ricerca, apparsa sulla rivista trimestrale “Psychological Studies”, organo ufficiale dell’Accademia nazionale di psicologia indiana, è espressione di una corrente culturale secondo cui c’è una forte correlazione tra un’infanzia drammatica fatta di patimenti e rinunce e il successo di personaggi della cultura e dell’arte. Gli esempi sono tanti, tra cui ricordiamo: Ligabue, Vincent van Gogh, Virginia Woolf, Franz Kafka, Edgar Allan Poe e Sinéad O’Connor. Tutti questi personaggi hanno avuto una caratteristica in comune: un’infanzia di sofferenze e privazioni, seguita nell’età adulta da problemi di salute mentale.
Le ricerche su questa tematica si sono sviluppate sulla teoria psicoanalitica “oggetto transizionale e fenomeno transizionale” secondo cui esiste una terza parte della vita di ogni individuo, un’area intermedia di esperienza a cui contribuiscono sia la realtà interna, sia quella esterna. Questa si manifesta quando i bambini affrontano l’ansia di separazione dai genitori concentrandosi su oggetti passeggeri o su comportamenti particolari in sostituzione della presenza genitoriale.
Se questa fase si prolunga nel tempo, questi strumenti di trasferimento diventano talmente solidi da produrre abilità creative. Tuttavia, considerando la loro genesi e sviluppo, molto spesso sono accompagnate da disagi mentali e relazionali. Forse è il prezzo da pagare al successo? Chissà!
Ma ecco l’altra faccia della medaglia: superata una certa soglia di “carenze di cure” la creatività si placa, mentre i problemi di disagio persistono. Non ci è dato sapere quale sia la “soglia” sufficiente al talento e quale no, per cui si resta sul vago. Infatti, un livello contenuto di disagi infantili può stimolare l’arte, ma uno eccessivo produce effetti nocivi alla salute mentale. Non è che ci volevano gli esperti per giungere a queste conclusioni, qualsiasi persona di buon senso ci sarebbe arrivata. E’ un po’ come il consiglio sull’alcol: non bisogna esagerare, va bevuto a dosi moderate. Mai che qualcuno sia riuscito a quantificare le dosi, per cui si resta nell’incertezza. Quella che per alcuni è una dose moderata, può essere eccessiva per altri!
Lo studio alla fine chiarisce che se è vero che le difficoltà durante l’infanzia possono stimolare l’ingegno, questo non deve diventare un “modus operandi”, perché, comunque, l’arte non può sostituire l’affetto genitoriale, è un’infanzia sofferta è un’infanzia rubata. Molto meglio vivere in un ambiente sano e costruttivo che possa stimolare le capacità creative in maniera serena senza sofferenze. Basta chiederlo ai bambini di Gaza, dell’Ucraina e di tutti i Paesi dove si svolge una guerra, in cui l’infanzia è violentata, profanata e vilipesa, se preferiscono vivere in tranquillità e serenità come dovrebbero fare tutti i bambini della terra, oppure soffrire per essere artisti da adulti!