La Corte di Cassazione chiude il caso dopo 9 anni: l’uomo soffocò la piccola Emanuela in ospedale. Condannato anche per altri due tentati omicidi precedenti, sempre ai danni della piccola.
Bari – La Corte di Cassazione ha messo la parola fine a una vicenda giudiziaria durata oltre nove anni, confermando la condanna a 29 anni di reclusione per Giuseppe Difonzo, 38enne di Altamura (Bari), riconosciuto colpevole dell’omicidio volontario della figlia Emanuela, una bimba di appena tre mesi. Il delitto, consumato nella notte tra il 12 e il 13 febbraio 2016 all’ospedale pediatrico “Giovanni XXIII” di Bari, aveva sconvolto l’opinione pubblica per la sua brutalità.
Secondo la ricostruzione dei giudici, Difonzo soffocò la figlia in pochi minuti, approfittando di un momento in cui era rimasto solo con lei in ospedale. Emanuela, nata fragile, aveva trascorso oltre 60 giorni della sua breve vita tra le mura del reparto pediatrico, vittima di crisi respiratorie che, come emerso in aula, erano state provocate proprio dal padre. L’uomo è stato infatti condannato anche per due tentati omicidi, avvenuti nel novembre 2015 e nel gennaio 2016, quando aveva già cercato di togliere la vita alla piccola.
Il percorso processuale è stato tortuoso. In primo grado, Difonzo era stato condannato a 16 anni per omicidio preterintenzionale. In appello, la Corte aveva ribaltato la sentenza, infliggendo l’ergastolo per omicidio volontario premeditato. Quella decisione, però, era stata annullata con rinvio dalla Cassazione. Nel nuovo giudizio, i giudici della Corte d’assise d’appello, accogliendo le attenuanti generiche, hanno fissato la pena a 29 anni, ora definitiva con il sigillo della Suprema Corte.
Le motivazioni della sentenza di secondo grado disegnano un ritratto inquietante dell’imputato. Per i giudici, Difonzo considerava la figlia “ingombrante e scomoda”. La nascita di Emanuela lo aveva costretto a confrontarsi con responsabilità che “fino ad allora gli erano estranee”, spingendolo a eliminarla per “sgravarsi dall’impegno e dallo sforzo di simulare un coinvolgimento emotivo”. La difesa aveva tentato di far valere la sindrome di Munchausen, una patologia che porta a procurare danni per attirare attenzioni, ma la tesi è stata respinta: “Le azioni di Difonzo non miravano a ricevere apprezzamento per aver salvato la figlia, ma a liberarsi di lei”.
Con la sentenza definitiva, per l’uomo si riaprono le porte del carcere. La vicenda lascia un segno profondo, riaccendendo il dibattito sulla violenza intrafamiliare e sulla fragilità delle vittime più indifese, come una bimba di tre mesi uccisa brutalmente da chi avrebbe dovuto proteggerla.