Genova: detenuti in rivolta pretendono invio ‘ndranghetista al pronto soccorso

Denuncia Uilpa penitenziaria: in 50 si sono rifiutati di rientrare nelle rispettive celle, poi il trasferimento del recluso in ospedale.

Genova – “Dalle ore 11:30 di ieri, nel reparto A.S., cinquanta detenuti con reati di associazione a delinquere si sono rifiutati di entrare nelle rispettive celle, dichiarando che non vi avrebbero fatto rientro se un detenuto ‘ndranghetista non fosse stato inviato al pronto soccorso”. Lo afferma Fabio Pagani, segretario della Uilpa Polizia Penitenziaria. “La trattativa è durata più di un’ora, poi il detenuto è stato inviato al pronto soccorso cittadino. – afferma Pagani – Non vogliamo entrare nel merito della salute del detenuto, di origine calabrese e affetto da determinate patologie, ma che l’invio al pronto soccorso di un detenuto con reati di associazione a delinquere avvenga tramite una protesta da parte dei detenuti A.S. è sintomo di una gestione della sicurezza a Marassi decisamente fallimentare. Oltretutto il direttore era presente in sede e l’ultima parola spettava a lei”.

Al pronto soccorso la visita è durata circa un’ora, e il detenuto è tornato in carcere: “Possiamo affermare che non esisteva nessuna urgenza. Non sappiamo più come dirlo. Cos’altro deve accadere affinché il governo prenda reale coscienza dell’emergenza penitenziaria in atto, sicuramente senza precedenti almeno negli ultimi 30 anni, e vari un decreto per mettere le carceri in sicurezza? 18mila unità mancanti alla polizia penitenziaria, 14mila detenuti in più rispetto ai posti disponibili, suicidi, omicidi, risse, aggressioni, stupri,
devastazioni, evasioni e proteste pericolose come quella di Marassi. Le carceri, oggi, non possono mirare a perseguire alcuno degli obiettivi assegnati loro dalla Costituzione e dalle leggi”.

Vista anche “l’incertezza manifesta del Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che annuncia decreti poi non discussi in Consiglio dei Ministri, riteniamo che la premier Giorgia Meloni dovrebbe avocare a sé la materia, a meno che non l’abbia derubricata nella sua agenda, eventualità sulla quale, peraltro, nutriamo più di qualche sospetto. Ogni giorno che passa, il disastro aumenta. Lo ribadiamo: non c’è più tempo”, conclude Pagani. Le rivolte nei penitenziari sovraffollati non si fermano, da Nord a Sud. Rivolte finite perfino sui social: è il caso di un un video girato dai detenuti del carcere minorile di Torino Ferrante Aporti è finito ad agosto su Tik Tok, con la violenza dei reclusi che si è scatenata nell’ufficio del comandante.

Un video che tra l’altro ha confermato anche la presenza di telefoni o tablet nei penitenziari. Ciò che restava del Ferrante Aporti era nelle foto circolate sui social. Uffici devastati, vetri in frantumi, bagni e sale comuni ormai inagibili. “Il massimo del carcere è di 42 persone, noi siamo in 60”, si legge nel video. Un’azione quella dell’istituto minorile torinese – si è scoperto – coordinata con l’altro penitenziario della città, il Lorusso e Cotugno, con lo scopo di favorire l’evasione di alcuni detenuti più giovani. I fuggitivi sono stati fermati prima che oltrepassassero il muro di cinta. Emblematiche anche le rivolte al carcere minorile Beccaria di Milano, dove sono scoppiati incendi alimentati dalla disperazione e dalla rabbia dei reclusi. Gli istituti di pena vanno in fiamme, tra la violenza dei detenuti e la paura degli agenti penitenziari.

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