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La doppia partita della premier Meloni: centrodestra unito in Europa

Ma Antonio Tajani chiude a Id-Afd e rilancia una ricetta diversa: “Maggioranza ideale è con popolari, liberali e conservatori”.

Roma – Capo di governo e capo di partito. Giorgia Meloni gestisce all’insegna dell’equilibrismo la strategia in vista delle Europee, e soprattutto delle trattative fra cancellerie e fra famiglie politiche dopo il voto dell’8-9 giugno. Una marcia in cui FdI, Forza Italia e Lega proclamano un unico obiettivo, replicare il modello italiano in Ue, ma ognuno con uno schema diverso. Matteo Salvini è alleato ai tedeschi di Afd e rifugge i liberali di Emmanuel Macron. Antonio Tajani spera in un asse popolari-liberali-conservatori ed esclude dall’orizzonte del Ppe, e quindi di FI, “qualsiasi dialogo” con Afd e in generale con Identità e democrazia, la famiglia europea della Lega. In Id è compreso anche il Rassemblement National francese di Marine Le Pen, che ha appena aderito alla kermesse degli spagnoli di Vox a Madrid, dove è intervenuta in collegamento Meloni.

E a sua volta la leader di FdI tiene le distanze da Afd, evita di nominare Macron, e dichiara di puntare a una maggioranza con “i partiti di centrodestra” che ritiene “potenzialmente alleabili”, sfida “difficile” che però “si può centrare”. In questa strana campagna elettorale affondi e distinguo tra colleghi di governo non sono molti meno che con i rivali di schieramenti avversari, al netto di quanto sarebbe potuto accadere nel confronto tv con Elly Schlein stoppato dall’Agcom. “Mi dispiace, è un’occasione persa. Sarebbe stato un modo per capire bene cosa cambia se vince un modello o se vince l’altro. Ha dato fastidio a qualcuno, ne prendo atto”, ha commentato la presidente del Consiglio, ospite di Mattino Cinque.

Il duello “saltato” di Meloni-Schlein da Vespa

“In altri modi”, ha aggiunto, spiegherà agli italiani quello che avrebbe voluto dire nel faccia a faccia con la segretaria del Pd (che si è detta “disponibile” a farlo “dove e quando vuole” Meloni), che non è più all’ordine del giorno in nessun’altra forma, spiegano dallo staff della premier. L’obiettivo di Meloni è estromettere la sinistra dalla maggioranza in Europa. E vi sta lavorando su due livelli, con due registri anche comunicativi. In veste di leader di FdI, il suo piano è allargare più possibile il consenso di Ecr (si profila un testa a testa con i liberali di Renew e con Id per il posto di terzo gruppo a Strasburgo), senza chiudere la porta a Le Pen, che a sua volta cerca lo slancio per sfidare Emmanuel Macron alle presidenziali francesi del 2027. Affinità e
interessi comuni non mancano ma, se un avvicinamento è in corso, resta ancora sotto traccia.

Né sta prendendo quota, per il momento, l’ipotesi di fondere Id e Ecr in un’unica famiglia estromettendo Afd. Tajani invece definisce “legittima” l’azione di Meloni come leader dei conservatori, ma a sua volta rilancia
una ricetta diversa: “La maggioranza ideale è popolari, liberali e conservatori”, e sottolinea la “grande importanza” di un “dialogo forte” fra Ppe e Ecr. Da capo del governo, invece, Meloni dovrà gestire le
trattative per il presidente della Commissione europea. Nelle ultime settimane ha più volte criticato l’operato di Bruxelles, fino al “paradosso che in Europa noi sappiamo come dobbiamo cucinare gli insetti ma non abbiamo una politica estera, di difesa, di controllo delle nostre catene d’approvvigionamento fondamentali”.

Ursula von der Leyen

Ma non è colpa di Ursula von der Leyen, ha precisato nelle ultime ore: “È colpa della maggioranza innaturale con popolari, socialisti e liberali che l’ha sostenuta”. E ha fatto l’esempio dei due governi di Giuseppe Conte, il primo “con la Lega che ha fatto politiche più di destra” e l’altro che era “di sinistra” con l’alleanza con il
Pd. Insomma, non punta apertamente sulla leader tedesca (che Ecr non sostenne nel 2019) ma nemmeno chiude la porta. L’impressione è che a meno di un mese dal voto sia ancora una fase di schermaglie e posizionamento, anche fra alleati. Nessuno azzarda previsioni concrete ai piani alti dei partiti, è ancora
presto, bisogna contare i voti, è il refrain. E su ogni ragionamento, non solo a Roma, aleggia lo spettro di Mario Draghi.

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